“Il tenore rossiniano” di Giorgio Appolonia non è una monografia, nemmeno un esaustivo dizionario ma viene presentato esplicitamente come “studio sui generis” e in particolare “capace di accattivare il semplice curioso, di rispondere ai molti interrogativi del professionista, di fornire allo studioso dati indispensabili”. Potremmo semmai definirlo come saggio che, proponendo un parallelo tra interpreti del passato, interpreti contemporanei e senza insistere troppo in dettagli specialistici, ha l’ambizione di chiarire le peculiarità di un canto che per lunghi anni, almeno fino alla cosiddetta “Rossini-renaissance” e alla riscoperta del Rossini “serio”, è stato ignorato o peggio travisato.
Da questo punto di vista, una volta ricordata per sommi capi la storia del periodo più infelice dell’interpretazione rossiniana, la struttura del volume acquista un suo significato: prima “i creatori dei ruoli nelle opere di Rossini fra il 1810 e il 1829” (Domenico Mombelli, Raffaele Monelli, Eliodoro Bianchi, Claudio Bonoldi, Serafino Gentili, Luigi Mari, Giovanni David, Manuel Garcia, Andrea Nozzari, Domenico Donzelli, Alberico Curioni, Giuseppe Ciccimarra, Savino Monelli, Marco Bordogni, Adolphe Nourrit), “presentati in sequenza a seconda del catalogo del pesarese”; e poi le interviste a tenori contemporanei (David Alegret, Luis Alva, Michele Angelini, Paolo Barbacini, René Barbera, Ugo Benelli, Rockwell Blake, Salvatore Fisichella, Juan Diego Flórez, Danilo Formaggia, Diego Godoy Gutierrez, Vassilis Kavayas, Dmitry Korchak, Gregory Kunde, John Irvin, Stefano Marra, William Matteuzzi, Francesco Meli, Chris Merritt, Bogdan Mihai, Maxim Mironov, Dano Raffanti, Edgardo Rocha, Sergey Romanovsky, Giuseppe Sabbatini, Antonino Siragusa) ma “vicini per repertorio alle voci storiche o chiamati ad approfondire le caratteristiche dei vari ruoli” (pp.16).
Chi ha un minimo di consuetudine col melodramma sa bene che ci sono definizioni che si prestano a molti equivoci o che quanto meno assumono un diverso significato a seconda delle varie epoche storiche. Non è un caso allora che Appollonia, proprio nel raccontare la carriera dei primi interpreti rossiniani, torni spesso sui termini di baritenore e di tenore contraltino. Senza dimenticare, per fare un esempio, quanto sia stato insolito per Claudio Bonoldi, nell’anno 1819, esser stato definito “baritono”; proprio perché “termine al tempo inconsueto, non esistendo che due tipologie vocali maschili: i tenori e i bassi” (pp.44). Il fatto che un Bonoldi o altri “baritenori” abbiano interpretato ordinariamente il protagonista del “Don Giovanni” mozartiano poteva apparire quindi meno eclatante di certe trasformazioni vocali avvenute in tempi più recenti. Pensiamo a quelle di Paolo Silveri che dopo gli esordi da basso ha fatto carriera come baritono, salvo un’incursione come Otello verdiano per poi tornare a ruoli baritonali; oppure a Ramon Vinay, interprete sia di Otello che di Iago; o ancora alle operazioni decisamente più commerciali di Placido Domingo.
Così da un lato abbiamo avuto Giovanni David (1790-1864), secondo Rossini “l’interprete adatto per esprimere, grazie al timbro chiaro e squillante e a un canto iperbolico, nelle fioriture, le intenzioni dell’eroe amoroso nell’opera seria, idoneo a sostituire il castrato o il contralto en travesti” (pp.69). Sull’altra sponda Domenico Donzelli che, nelle parole del musicologo Enrico Panofka, appariva come il tipico baritenore: “La sua voce era di un vigoria rara, e presta vasi, in ispecie, agli accenti drammatici […] la sua estensione era dal Si basso al La sopra le righe (chiave di Sol)” (pp.111). Se infatti fosse scontata la definizione di questa tipologia di tenore, Apollonia non avrebbe chiesto a Paolo Barbacini, uno dei più importanti protagonisti della stagione della “Renaissance”, quale sia l’identikit del cantante rossiniano. Ricevendo come risposta: “coloratura e facilità nel registro acuto, oltre ad una preparazione musicale di primissimo ordine” (pp.177).
Caratteristiche che ritroviamo – lo ripetiamo – sia in cantanti come Kunde, Merrit o Spyres che, secondo Francesco Meli, “sono tenori in alto, baritoni in mezzo e quasi bassi nel registro grave” (pp.219); sia in coloro che, come Juan Diego Flórez, fino ad ora – il riferimento è all’anno 2017 – si sono collocati “stabilmente nei ruoli di tenore contraltino” (pp.242). Al di là del mero dato vocale, spesso vero e proprio pallino fisso dei melomani-vociomani, dal libro di Appolonia emerge soprattutto che per la musica di Rossini, “all’interno delle decoratissime trine musicali”, non esiste soltanto l’esigenza di rifiutare l’antico approccio verista, ripulendolo da un certo macchiettismo e da sguaiatezze assortite, ma qualcosa di più: interpretazioni che non abbiano nulla di improvvisato, che siano consapevoli dell’importanza della musica rossiniana e che quindi sappiano coniugare le doti naturali del cantante ad un sempre presente rigore storico e musicologico.
Edizione esaminata e brevi note
Giorgio Appolonia (1953), laureato in medicina, ha pubblicato otto monografie sulla fisiologia e le vocalità belcantistiche del primo Ottocento. Ospite di convegni musicologici, e autore di originali radiofonici e musicali, da vent’anni conduce “Il ridotto dell’opera” presso la Radio Svizzera di Lingua Italiana RSI-Rete Due.
Giorgio Appolonia, “Il tenore rossiniano. Primi interpreti, nuove voci”, Lemma Press (Collana “Calligrammi”), Bergamo 2018, pag. 280. Prefazione di Ernesto Palacio
Luca Menichetti. Lankenauta, dicembre 2018
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