Malerba Luigi

Salto mortale

Pubblicato il: 20 Luglio 2012

«Salto mortale racconta … no, non racconta un bel nulla» osservava Angelo Guglielmi a proposito di uno dei testi più sperimentali di Luigi Malerba. Vero. Sono i romanzi che raccontano storie, e le raccontano innanzitutto perché presuppongono un tempo lineare che dipanandosi spiega, chiarisce, sviluppa e risolve, o in bene o in male. “Salto mortale” invece non è un romanzo, perché il suo tempo interiore non è il tempo rettilineo che procede portando ogni cosa verso la sua destinazione conclusiva, bensì un tempo circolare, come un salto mortale appunto, in cui l’arrivo coincide con il punto di partenza; e dunque nessuno dei nodi e misteri del libro è destinato ad avere un chiarimento o una risoluzione. E nemmeno un finale aperto, che per quanto irrisolto sempre un finale sarebbe, capolinea di una peripezia.

Malerba sa che per sovvertire il romanzo tradizionale il primo livello su cui agire è il tempo rettilineo, metaprotagonista, o meglio schema trascendentale di ogni narrazione classica: disinnescare il timer che ogni romanzo si porta dentro e che procede inesorabile verso un esito finale, questo è lo scopo del suo non-romanzo. Curvare il tempo piegandolo a un innaturale testacoda. Per questo concepisce “Salto mortale” come un falso movimento, un giro a vuoto nella mente e nei soliloqui del robivecchi «Giuseppe detto Giuseppe», che un giorno, percorrendo la pianura di Pavona, scopre il cadavere di un uomo con la gola tagliata, e improvvisandosi detective comincia a condurre indagini parallele a quelle della polizia. Potrebbe scaturirne una trama gialla, invece Malerba si diverte a vanificare ogni progresso della narrazione dissolvendolo nel nonsense (Umberto Eco paragonava il non-romanzo di Malerba al pesce di “Yellow Submarine” che a poco a poco divora se stesso sino a svanire del tutto).

Il primo a entrare nella lista degli indiziati di Giuseppe – tutti di nome Giuseppe come lui, un gioco di omonimia che di per sé getta un sospetto di inaffidabilità sulle parole del protagonista – è un macellaio che scambia il robivecchi per un prete venuto a convertirlo; il secondo è un “demoscatore” di Albano, che odia le mosche e le ammazza con un mix di melassa liquida e ddt; il terzo è un tizio con la bicicletta nera, dall’identità incerta, avvistato sul luogo del delitto: forse non è altri che lo stesso Giuseppe (lui in effetti ha una bicicletta nera), o forse è un vecchio che solitamente raccoglie stracci nella zona e spaventa le ragazzine, o forse ancora è un bagnino del Lido di Lavinio, che, interrogato da Giuseppe, invece di rispondergli punto per punto gli improvvisa una riscrittura parodistica della storia di Enea e Didone. Uno a uno gli indiziati moriranno tutti in circostanze inverosimili e misteriose (impossibile sapere se si tratti di suicidio, omicidio o incidente). Avvolti da quest’aura di paradosso, gli indiziati non paiono credibili né come assassini né come assassinati. E allora chi sono veramente? Proiezioni o allucinazioni dello stesso Giuseppe? E Giuseppe chi è? E’ folle o è sano? E’ vivo o è morto? E’ l’assassino o l’assassinato che giace nella pianura di Pavona?

Ci sono altri due personaggi che partecipano alla quest di Giuseppe: una è la sua sua donna, di volta in volta chiamata Rosa, Rossana, Rosella, Rosalinda, Rosmunda, Rosangela, Roselda, Rossanda … (stavolta Malerba gioca con la polinomia) a cui Giuseppe confida i particolari delle sue indagini mentre lei, curiosamente, lo allatta, o si presta a poco desiderabili giochi erotici; l’altro è il suo personale alter ego, con cui il protagonista intrattiene un fittissimo dialogo interiore e di cui alla fine si disfa spedendolo a Roma col treno. Anche loro vivono la loro inverosimile esistenza probabilmente solo nella mente del protagonista, come in una monade a chiusura ermetica, senza porte né finestre né alcun aggancio alla realtà. Con queste premesse, fumeggiate di humour e paradossi, non stupisce che alla fine delle sue indagini Giuseppe si ritrovi al punto di partenza senza aver risolto il caso, lasciandoci il vago sospetto, come lettori, di non aver fatto un solo passo fuori dalla sua mente nevrotica e febbrile.

“Salto mortale” però non è solo humour e nonsense, ma la rappresentazione grafica del nonsenso della vita e della sua indecifrabilità. Una rappresentazione non romanzata, ma tautologica dell’assurdità del mondo, in cui l’insensatezza non viene semplicemente evocata, allusa, ma viene chiamata a parlare in prima persona con la sua propria voce e la sua sintassi sgangherata. Del resto, rappresentare il nonsenso col nonsenso, la schizofrenia con la schizofrenia era una scelta stilistica diffusa sia in poesia che in prosa all’interno del Gruppo 63 di cui Malerba fece parte (pensiamo all’asintassìa che Sanguineti utilizzava come praxis della configurazione del caos). Ma mentre la poesia si presta con maggiore facilità a mimare il caos attraverso la dissoluzione sintattica, perché non essendo narrazione non deve rendere conto alla variabile temporale, il romanzo che vuole imitare la supposta asintassia del reale deve fare i conti col Tempo narrativo: inventarsi una temporalità nuova, diversa da quella rettilinea del romanzo classico che procede in crescendo e conduce le cose verso la/il loro fine. Il post-romanzo che non pretende di spiegare la realtà indecifrabile, che non racconta una storia perché questo significherebbe “raccontare storie”, mentire, portare la sintassi dove una sintassi non c’è, deve darsi una temporalità propria, non finalistica, bensì oziosa e improduttiva, in una parola deve “ammazzare il Tempo”. Di qui il bighellonare senza trama e senza intreccio di “Fratelli d’Italia” di Arbasino, di qui il tempo rotatorio che gira a vuoto e invano di “Salto mortale”: post-romanzi che non raccontano storie, vagabondaggi intellettuali che consapevolmente scelgono l’inconcludenza. Che intenzionalmente decidono di perdere, sprecare il Tempo.

A differenza di Arbasino, però, che come scrive Alfonso Berardinelli «non scrive per essere letto, e neppure per divertire o per meravigliare», Malerba non perde mai il contatto col lettore, non smette mai di comunicare. Col registro ironico-parodistico, ma anche con quello drammatico, spargendo un senso di soffusa minaccia per tutto il non-romanzo. Ecco l’incipit:«Me lo sogno o lo senti anche tu? Questo ronzio questo ronzare. Da dove viene? Dal cielo, dalla Terra? Stai calmo non è niente. Allora sono le mie orecchie. Ma no viene da fuori. Questo ronzio questo ronzare non sono le mie orecchie» dice Giuseppe a colloquio polemico col suo interiore alter ego, e addebita il rumore prima alle antenne di Santa Palomba, poi agli aeroplani militari di Pratica di Mare, poi a uno sciame di mosche che a milioni e milioni piovono dal cielo.

E poi ci sono le digressioni – indispensabili anzi consustanziali all’errabondare postnarrativo di “Salto mortale” e comunque tipiche della scrittura di Malerba. In alcune irrompe la sua coscienza ecologista e la preoccupazione per un pianeta a rischio distruzione: «Io faccio un ragionamento elementare e dico signori avete costruito le fogne per portare via gli scoli dalla metropoli? E allora costruite anche dei grandi tubi che portano via l’aria inquinata. Poi fate degli altri tubi per portare in città l’aria pulita, l’aria di montagna e l’aria di mare a seconda che uno preferisce l’aria di montagna o quella di mare. Potete collegarvi direttamente con l’atmosfera di Sanremo, con Cortina e la Val d’Aosta per chi vuole l’aria di Cortina e della Val d’Aosta. Li fate venire i frutti dall’Africa? E allora fate venire l’aria da dove l’aria è buona e pulita perché qui l’aria è un disastro». Qui come altrove sembra riecheggiare il genio inventivo di un Rodari: «Cioè tutte le cose si assomigliano, il Cielo assomiglia al mare una mela a un melone l’Italia assomiglia al Giappone l’Oriente all’Occidente, anche la Terra vista dalla Luna assomiglia alla luna vista dalla Terra».

E infine i metamorfismi giocati sulle omonimie e sulle assonanze: le mignatte che si impercettibilmente si trasformano nelle mignotte romane, le pantere della polizia sguinzagliate nelle campagne intorno a Pavona che ridiventano i felini da cui prendono il nome («Stai attento piuttosto alle pantere. E’ come camminare nella jungla in queste campagne. Per fortuna non aggrediscono se non sono aggredite, non ci credo. Forse in Asia e nella Giungla Africana quando sono nel loro ambiente naturale, ma qui sembrano sempre arrabbiate, corrono a più di cento all’ora, ti arrivano addosso all’improvviso, sono capaci di sbranare un uomo in due minuti, per piacere. Hanno i denti acuminati i fari dilatati una ripresa eccezionale i copertoni cinturati»). Metamorfismi che non sono semplici divertissement, ma allusioni ad una realtà sgusciante, volubile, concettualmente inafferrabile.

Se il non-romanzo di Malerba trascina il lettore nonostante la sua temporalità inconcludente e improduttiva, si deve innanzitutto ad una impareggiabile felicità di scrittura: un monologo interiore a due voci (quella di Giuseppe e quella del suo alter ego) che mima la facilità del parlato e attinge alla veracità con cui il registro colloquiale distrugge naturalmente sintassi e punteggiatura. Mai Malerba dava l’impressione di scrivere sotto sforzo, la sua scrittura asintattica era fresca come una lingua madre. Al confronto certe recenti asintassie finiscono col sembrare confezionate, coatte, scolastiche, insomma, nuove e occulte prigioni. La sua scrittura svelleva i paletti sintattici con agilità, come se lo sperimentalismo le fosse congenito, prima ancora che congeniale. Come ad esempio in questo passo, in cui Giuseppe ripensa in chiave ironico-melanconica alla partenza del suo alter ego e la scrittura di Malerba crea il piccolo miracolo di un finimondo logico-linguistico in cui è estremamente piacevole stare: «Tutto questo silenzio, la voce se n’è andata, sono contento cioè in fondo mi dispiace. E’ andata via piangendo piangeva piangi pure, cioè non me ne importa niente. Quando il vento gelido ti strapperà via le orecchie, quando la sabbia ti entrerà negli occhi. Non ci voglio pensare. Per fortuna la memoria tende a dimenticare».

Edizione esaminata e brevi note

Luigi Malerba (pseudonimo di Luigi Bonardi, Berceto 1927 – Roma 2008), oltre alle opere di narrativa, romanzi e racconti, ha scritto testi per il cinema e la televisione e numerosi libri per ragazzi. Le sue opere sono tradotte in tutto il mondo. Tra queste ricordiamo “La scoperta dell’alfabeto” (1963), “Il serpente” (1966), “Il protagonista” (1973), “Il pianeta azzurro” (1986), “Il fuoco greco” (1990), “Le maschere” (1994), “Itaca per sempre” (1997), “Fantasmi romani” (2006).

Luigi Malerba, “Salto mortale”, Milano, 2002. Prima edizione: “Salto mortale”, Milano, 1968.

Bibliografia consigliata: Paolo Mauri, “Malerba”, La nuova Italia (“Il Castoro” n. 122), Firenze, 1961; Giuliano Manacorda, “Letteratura italiana d’oggi”, 1965-1985, Editori Riuniti, Roma, 1972, pp. 129-131; Armando La Torre, “La magia della scrittura: Moravia, Malerba, Sanguineti”, Bulzoni, Roma, 1987; Walter Pedullà, “Antirealisti astrattisti informali: Luigi Malerba”, in Nino Borsellino e Walter Pedullà (a cura di), “Storia generale della letteratura italiana”, Federico Motta, Milano, 2004, vol. XV, pp. 289-304.

Approfondimento in rete:

spazioinwind.libero.it/letteraturait/opere/malerba01.htm – criticaletteraria.org/2011/08/salto-mortale-di-luigi-malerba-invito.html

Elettra Sammarco, 2012