Leggendo “Sappiano le mie parole di sangue”, per un attimo ho pensato di amarlo. Forse perché me ne ero innamorata già prima di leggerlo – e come si fa a non innamorarsi di un romanzo sulle guerre balcaniche degli anni Novanta anche senza leggerlo, anche solo per la coraggiosa eccentricità del tema. La geopolitica che irrompe nella narrativa italiana degli anni zero: era ora. Finalmente un grandangolo. Una panoramica. Uno sguardo capace di spingersi oltre Schengen e di intrufolarsi nell’Europa balcanica, l’Indesiderata, l’Europa dei conflitti interetnici che abbiamo alle costole.
L’ho amato molto fino a quando non ho capito che il romanzo di Babsi Jones è sorprendentemente self-centred. Che la sua anima geopolitica viene continuamente minacciata o risucchiata dall’autofasia, dall’ostensione del buco nero interiore dell’autrice: un «malore intimo, intimo e prolisso» che non diventa mai storia nella storia, perché non ha sviluppo e rimane piantato nel romanzo come un chiodo fisso.
Due voci si contendono il romanzo. Due diversi io narranti: uno più maturo, quello della reporter di guerra che racconta l’inenarrabile (o meglio l’inenarrato, la versione non ufficiale delle guerre balcaniche); l’altro più estetizzante, ed è quello che non sa resistere alla tentazione dell’autoritratto con macerie. Che, come in una natura morta secentesca, raffigura continuamente il proprio teschio affianco alle candele consunte, gli uccelli morti e il cibo in decomposizione. E così il grandangolo finisce spesso per cedere spazio all’autoscatto.
L’io-narrante, autenticamente narrante del romanzo, racconta una storia vera, o meglio una vera storia, sia pure destrutturata in forma di epistolario/reportage/inchiesta (in una parola: quasiromanzo, come lo definisce la stessa BJ) sulla guerra del Kosovo e su quella di Bosnia, di pochi anni precedente. La trama: una reporter, Babsi Jones (così la chiamano o dice di chiamarsi), decide di restare nella città kosovara di Mitrovica mentre la popolazione serba, sconfitta, viene evacuata o fugge per timore delle rappresaglie dei vincitori, i kosovari albanesi. Assieme ad altre tre casuali coinquiline (una che lavora per la missione umanitaria dell’Onu in Kosovo, una ragazza cieca e demente e una malata di colera), trova alloggio nel diroccato condominio Yu Prog dove sopravvive un grumo di una derelitta umanità serba. E nella settimana che precede l’arrivo dei vincitori in città per formalizzare la secessione del Kosovo, scrive lettere al Direttore del suo giornale, che non ha mai apprezzato le sue posizioni filoserbe. Da questo epistolario, che non verrà mai spedito, parte una documentata contro-versione delle recenti catastrofi balcaniche, che BJ ricostruisce dal punto di vista dei serbi, difendendoli dall’accusa di «genocidio e di ogni altra possibile brutale minchiata».
Nell’ordine: il massacro di Racak – in cui, secondo il Tribunale dell‘Aja, le forze serbe uccisero 45 civili kosovaro-albanesi, episodio scatenante che portò all’intervento della Nato in Kosovo – viene rappresentato da BJ come una farsa: una macabra messa in scena organizzata dall’Esercito per la liberazione del Kossovo (Uck), che rivestì di abiti civili i cadaveri di militanti dello stesso Uck uccisi dai serbi durante legittime operazioni militari. Una tesi sostenuta, all’epoca, non solo dai serbi, ma anche da testate occidentali tra cui Le Monde, Figaro, France Press. Anche di Srebrenica (più di 8.000 civili musulmano-bosniaci massacrati nel 1995 dai Serbo-bosniaci di Karadzic e Mladic, secondo il verdetto del Tribunale dell’Aja), BJ fornisce una diversa interpretazione, secondo cui i serbobosniaci uccisero non i civili, ma gli aggressori che tra il 1992 e il 1993 si erano resi responsabili di una sanguinosa pulizia etnica antiserba (tesi giudicata negazionista dal Tribunale dell’Aja). Dunque Srebrenica sarebbe una vendetta. Una giustificata, sacrosanta vendetta.
E poi gli eccidi e le efferatezze compiute dagli ustascia croati contro i serbi, deportati nel campo di sterminio di Jasenovac assieme a zingari ed ebrei; la pulizia etnica compiuta tra il ‘41 e il ‘45 dagli albanesi della divisione Skanderbeg in Kosovo (diecimila serbi uccisi e altrettanti espulsi); la “serbofobia“ congelata dal regime titino che riesplode alla dissoluzione della ex Yugoslavia; i serbi in fuga dal Kosovo per paura delle rappresaglie albanesi dopo la fine della guerra, oppure uccisi o lasciati morire di fame come il vecchio Zivorad Velikinac in un regime di apartheid: il quasiromanzo di BJ è una miniera di controinformazioni desunte da un’ampia letteratura filoserba che perlopiù non ha avuto accesso al mainstream mediatico.
Mai un accenno alle violenze compiute dai serbi, se non per presentarle come reazione e legittima difesa. Anche se da una simile ricostruzione dei fatti i serbi escono immacolati, come smacchiati di candeggina. L’intento di BJ infatti non è quello di contrapporre alle violenze commesse dai serbi quelle compiute dalle altre etnie in lotta. Lei va oltre questa bilanciata imparzialità. Non vuole essere un giudice, ma il pubblico ministero che difende le ragioni del popolo serbo, rimasto inascoltato. Alcune pagine del libro illustrano quella che, secondo BJ e altre fonti di controinformazione, fu la strategia propagandistica perseguita dal governo croato, da quello bosniaco e dai separatisti del Kosovo, i quali, per promuovere la loro causa agli occhi dell’Occidente e a danno dei serbi, si affidarono agli image makers dell’agenzia Ruder&Finn: «Non siamo pagati per essere morali. Il nostro lavoro non è verificare le informazioni, ma di accelerare la circolazione di quelle a noi favorevoli, per raggiungere bersagli accuratamente scelti», dichiarò il direttore della Ruder&Finn in un’intervista. Di fronte a questa macchina da guerra propagandistica, BJ reagisce definendo «meschina» l’oggettività di chi pretende di attenersi alla verità dei fatti, secondo lei irrecuperabile: «Non è un’oscenità… pretendere etica e verosimiglianza davanti agli esperti della Ruder&Finn che – di concerto con i creativi terroristi [quelli dell’Uck] – ci offrono settimanalmente il meglio della produzione mondiale, notizie bomba e concrete deflagrazioni? Non è indecente esigere obiettività se altre parole, insanguinate o monche, potrebbero salvarci dal finire supercoerenti, sì, ma ammutoliti?». “Sappiano le mie parole di sangue“, col suo titolo di derivazione shakespeariana, offre queste parole altre, e ne dichiara apertamente la parzialità. Sarà una posizione discutibile, ma rappresenta la parte più cospicua e coinvolgente del romanzo, quella su cui tornare a riflettere da un punto di vista storico e storiografico. Magari approfittandone per procedere oltre la semplicistica diagnosi di “serbofobia“ enunciata nel libro come causa del mattatoio balcanico degli anni Novanta.
Per il resto, nel romanzo c’è lei, Babsi Jones. Oltre il reportage con la sua bella confezione narrativa (o post-narrativa), oltre l’efficace fenomenologia dello scempio delle città e dei corpi, in queste pagine c’è la messa in scena della donna/scrittrice Babsi Jones. Il suo avido cercarsi e rispecchiarsi nelle rovine, una lunga sequenza di autoscatti: autoscatto mentre abito e scrivo «in questo sovrumano budello, migliaia di cunicoli in cui entriamo in collisione». Autoscatto mentre resto a contemplare le foglie marce e gli stracci lerci che danzano nel fiume Ibar. Autoscatto mentre corro e inciampo sulle salme riverse per le strade di Mitrovica: «con il ventre squarciato, sono ostriche molli; rigurgitano umori non ancora rappresi: scuriranno. Le lingue roteano nel mulinello dei vermi solerti; i soldati hanno gli arti spezzati. Ce ne sono degli altri: più in là sotto i ponti a insecchirsi, dentro il fiume a immollarsi. Io corro».
La sua macchina da presa non inquadra foglie marce e stracci lerci, ma inquadra lei che a sua volta inquadra foglie e stracci nell’Ibar, i cunicoli-prigione del condominio Yuprog, le salme fumanti per le strade di Mitrovica. C’è lei in ogni inquadratura, la sua firma sotto ogni scatto, un verbo in prima persona a didascalia di ogni sequenza: «Vedo». «Inquadro».«Io che siedo nel mezzo di tutto». Il dramma non si svolge davanti ai suoi occhi ma si forma nella camera gestazionale della sua retina, mentre noi lettori siamo chiamati ad osservare non quello che accade, ma la gravidanza delle cose nell’utero del suo sguardo. Come se ogni volta ci toccasse assistere al parto in diretta dei frutti del suo concepimento visuale. Una mediazione che toglie al dramma la sua forza oggettiva, lo intorbida e lo confonde in una visione personalistica e allucinata, grondante di egoità.
Una notte massacrano un uomo sotto le sue finestre e lei immagina il sangue del morto colare in sincrono col suo mestruo: «Stringo le gambe, strisciando nella pozza che mi si allaga sotto. Sembra restringersi anche il morto, la cui sagoma si rapprende sotto la neve. Entrambi zitti: il sangue non ha suono. Né il mio né il suo. Stilla, scende, cola: il sangue del cadavere che si coagula, il sangue del taglio aperto in mezzo alle mie gambe vive». La vita che defluisce dal morto, e la vita dell’ovulo infecondato – vita disfatta prima ancora di cominciare – che defluisce dal ventre di lei: una simmetria forzosa e sproporzionata tra un lutto vero e una perdita fisiologica, tra un massacro e una dismenorrea. Il grandangolo, ancora una volta, non ha retto, e la visione panoramica si è ristretta a un close up sulla lei narrante, sulla sua autopercezione, sul proprio lento, assaporato disfacimento: «Questa mia settimana di tragedia sfinente».
Lo stesso accade durante il suo primo incontro con la ragazza cieca, la serba che, come lei, vive barricata nel condominio Yu Prog: «Aperti su di me, i suoi occhi: non c‘è che la cornea tra le ciglia folte… Di me, lei non vede che un‘ombra». E poi, rivolgendosi al potenziale destinatario delle sue annotazioni: «Che sollievo, Direttore, non vede.» Non vede cosa? Cosa è bene che non veda, la ragazza? Forse lo scempio che passeggia indisturbato per le strade di Mitrovica? No: «Non vede le mie unghie tinte di nicotina, che io eclisso nel palmo storcendo le falangi … Non vede le espressioni facciali: il dubbio che offusca il mio sguardo, l’imbambolata determinazione con cui mi ostino a scegliere quel che non si può scegliere: restare qui». Ancora una volta, il dramma di un altro essere viene scalzato per far posto al proprio malessere, che nella contiguità con la tragedia altrui si esalta fino ad assumere una dimensione eroica. Investiti della fosca luce dei morti e degli sventurati, dismenorrea, tabagismo e dubbiosa determinazione a restare perdono i loro modesti contorni umani e diventano epos. Un caso di vampirismo al contrario, in cui sono i vivi a succhiare il sangue dei morti.
L’altro essere umano è spesso occasione o espediente per buttare giù un rapido autoritratto e per riproporzionare il dolore degli altri al formato del proprio malore. Come quando BJ tenta un dialogo con la straniera malata di colera che, contro il parere della coinquilina umanitaria, si è portata a vivere nell’appartamento del condominio Yu Prog: «Provo a parlare alla straniera, Direttore, mentre Talita [la ragazza cieca che vive con loro] le asciuga la fronte. Le divide in ciocche i capelli madidi di sudore. Non ottengo che un flebile «aba ibtyvb zbever» e uno sguardo di dolore lontano. L’assenza di comunicazione non mi inquieta: ho imparato anche a non parlare, in questi anni di guerra. Ho imparato anche a parlare a vanvera. A nascondermi in un diluvio di ciarle». Verso la fine del libro, BJ si scaricherà di ogni responsabilità sulla straniera morente consegnandola all’umanitaria: «Te ne occuperai tu». «E perché?». «Perché io me ne vado. E perché tu sei quella che soccorre le vittime».
“Sappiano le mie parole di sangue“ è un romanzo a due voci, scritto da due diverse Babsi Jones, una scrittrice impegnata e una prefica di se stessa. Non si sa se BJ tornerà a pubblicare, un giorno. Ma, nel caso, sarebbe bene che a tornare fosse la prima delle due.
Edizione esaminata e brevi note
Babsi Jones (Milano, 1968) ha vissuto per sette anni a Londra lavorando nel music business. Ha collaborato con agenzie stampa e siti di informazione indipendenti, occupandosi della questione del Kosovo. Ha pubblicato racconti su giornali e riviste, tra cui “Nuovi Argomenti” e due suoi racconti fanno parte dell’antologia “Voi siete qui” (Minimum Fax 2007). Questo è il suo primo romanzo.
Babsi Jones, “Sappiano le mie parole di sangue”, Rizzoli, Milano, 2007.
Approfondimento in rete:
giraffaweb.it/riflettendo/la-reinvenzione-del-silenzio-di-babsi-jones-un-blog-chiuso/; scritture.blog.kataweb.it/francescamazzucato/2007/09/13/2145
Elettra Santori, agosto 2012
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