Si dice, spesso, di Alice Munro, che le sue storie non abbiano nulla di sorprendente o di eclatante. Storie di un mondo ordinario, di provincia, in cui i protagonisti – donne, per lo più – sono alle prese con le normali e preventivabili difficoltà della vita (matrimonio, divorzio, tradimento, malattia). “Musica del quotidiano”, insomma, come del resto si legge nella quarta di copertina di “Nemico, amico, amante”. E dunque l’abilità della Munro sarebbe innanzitutto quella di rendere il banale affascinante e magnetico con la sola forza di una superba scrittura. Del resto, ogni vita merita un romanzo, diceva Flaubert; e ogni scrittore di livello sa come fare per trasformare un’esistenza disadorna in una buona storia.
Tra gli elementi che sembrerebbero corroborare quest’interpretazione minimalista della Munro c’è il setting delle sue storie. Paesaggi dell’Ontario (è il Canada, ma sembra il Midwest), marginali come i suoi personaggi: alberghi che sembrano case decrepite, coperti da fogli di lamiera battuta e la scritta hotel in tubi al neon, spenti; pietosi villini bifamiliari prefabbricati in legno, gettati tra una fabbrica abbandonata e un discount; l’America rurale delle fattorie e delle roulotte abitate, o quella borghese delle ville in stile West coast. E poi, gli interni delle case di riposo (un’ambientazione che ricorre in ben tre racconti sui nove di “Nemico, amico, amante”), con il televisore eternamente acceso «a soffocare pensieri e conversazioni», i muri «color bile», le cascate di edera finta, e le frasi sconclusionate che i vecchi svaniti ripetono all’infinito («Se ne sta seduta lì tutto il giorno e qualsiasi cosa tu le dica non fa che ripetere la stessa cosa. Fresca come una rosa e pronta per l’amore. Non dice altro per l’intera giornata. Fresca come una rosa e pronta per l’amore»).
È tra questi scenari che non hanno nulla di accattivante (e tuttavia splendidamente descritti), che si muovono le persone normali della Munro: casalinghe tranquillamente sposate, ragazze senza particolari ambizioni professionali, professori di provincia, aspiranti scrittrici, donne anziane che hanno serenamente rinunciato ai fuochi della giovinezza. Che nelle loro vite non accada nulla di eclatante, in realtà, non è affatto vero: c’è sempre un momento in cui il loro mondo quieto entra in collisione con lo straordinario, che sia un tradimento, un cancro, la demenza senile, il suicidio come liberazione da una malattia devastante. Eppure, leggendo alcuni di questi racconti, si ha l’impressione che nulla di eccezionale stia accadendo. Perché? Da cosa dipende la strana sensazione di normalità, di ridimensionamento del dramma che traiamo da queste pagine? È forse una disposizione di acquiescenza alla vita quella che filtra dai racconti della Munro? In realtà, quando la sua scrittura smorza i toni del dramma, è perché sta spostando l’asse della drammatizzazione su altri eventi, successivi a quello critico iniziale, che in realtà funge solo da detonatore.
Ma detonatore di cosa? Qui sta l’originalità della Munro, la sua personale via d’accesso alla decostruzione della forma racconto.
L’evento critico – lo straordinario che entra in collisione con l’ordinario, l’asteroide che impatta la Terra – anziché provocare sconvolgimenti, rotture dell’ordine, trasformazioni irreversibili, lascia la vita dei protagonisti più o meno quella che già è. Infedeltà, malattia, morte scavano cunicoli interiori nell’esistenza dei personaggi, senza per questo modificarli, o sconvolgerli, semplicemente approfondendoli. Gli accadimenti posteriori sono a volte meno drammatici, meno narrativamente impressionanti di quello critico iniziale, eppure è su questi che la Munro pone l’accento del racconto, silenziando lo straordinario ed pigiando il pedale di risonanza sul poco che succede dopo. Così, l’infedeltà di un giorno di Meriel non la indurrà a lasciare suo marito, né a imbastire una relazione col suo amante, ma la impegnerà vita natural durante a rimasticare quel ricordo, continuando a nutrirsi delle possibilità non colte. Il tumore darà alla quarantenne Jinny la possibilità di assaporare l’imprevisto bacio di un ragazzo di vent’anni, indifferente alla sua testa calva, conseguenza della chemioterapia. Il suicidio del marito, malato di sclerosi laterale amiotrofica, impegnerà Nina nella ricerca di un biglietto d’addio, che, una volta trovato, si rivelerà piuttosto deludente.
Storie come “Il ponte galleggiante”, “Conforto”, “Quello che si ricorda” procedono in diminuendo, anziché in crescendo (e questa è di per sé una violazione delle regole codificate del racconto), anche se robuste iniezioni di flashback a tratti riaccendono la materia narrativa. E tuttavia, mentre l’intreccio si fa via via più rarefatto, la scrittura della Munro si approfondisce, si introflette e diventa sempre più psicologica. Al punto che questi racconti (come anche “Mobili di famiglia”, ad esempio) potrebbero sembrare più memoirs, o tranches de vie che storie strutturate in senso classico. Anche negli altri racconti dall’architettura più tradizionale (“Post and Beam”, “Nemico, amico, amante”, “The bear came over the mountain”) la sua scrittura rimane introspettiva, sensibile ai processi interiori. Più micrologica che minimalista, anche nella ricostruzione degli ambienti, scannerizzati in ogni dettaglio. Come in questo passo, dove gli oggetti che abitano la cucina non sono semplici sagome inanimate, ma esseri viventi, vascolarizzati, dotati di una temporalità che li usura e li sbreccia: «Descrisse come sfregava il gas con i sacchetti di carta cerata per farlo brillare, e poi gli scaffali anneriti su cui poggiavano le padelle, e il lavandino con sopra il piccolo specchio al quale mancava un triangolino di vetro, e la piccola conca di latta – fatta da suo padre – nella quale c’era sempre un pettine, e il vecchio manico di una tazza, e un astuccio di fard in polvere che un tempo doveva essere stato di sua madre».
Nessun legame col minimalismo, dunque. Semmai un debito verso la Southern literature, che la Munro stessa ha riconosciuto in un’intervista alla Paris Review: «The writers of the American South were the first writers who really moved me because they showed me that you could write about small towns, rural people, and that kind of life I knew very well. But the thing about the Southern writers that interested me, without my being really aware of it, was that all the Southern writers whom I really loved were women. I didn’t really like Faulkner that much. I loved Eudora Welty, Flannery O’Connor, Katherine Ann Porter, Carson McCullers. There was a feeling that women could write about the freakish, the marginal».
Edizione esaminata e brevi note
Alice Munro è nata a Wingham, Ontario (Canada), nel 1931. Considerata una delle più grandi scrittrici nordamericane, ha pubblicato prevalentemente raccolte di racconti e un solo romanzo (“Lives of girls and women”, 1971). La prima raccolta, dal titolo “La danza delle ombre felici”, risale al 1968. Tra quelle successive, ricordiamo “Chi ti credi di essere” (1978); “Le lune di Giove” (1982); “Stringimi forte, non lasciarmi andare” (1990); “Segreti svelati” (1994); “In fuga” (2004); “La vista da Castle Rock” (2006) e “Troppa felicità” (2009). Nel 2009 ha vinto il Man Booker International Prize.
Alice Munro, “Nemico, amico, amante”, Einaudi, Torino, 2005. Traduzione di Susanna Basso.
Prima edizione: “Hateship, friendship, courtship, loveship, marriage”, Maclelland & Stewart, Toronto, 2001.
Bibliografia consigliata:
Neil Kalman Besner, “Introducing Alice Munro’s Lives of Girls and Women: a reader’s guide”, ECW Press, Toronto, 1990.
E. D. Blodgett, “Alice Munro”, Twayne Publishers, Boston, 1988.
James Carscallen, “The Other Country: patterns in the writing of Alice Munro”, ECW Press, Toronto, 1993.
Alisa Cox, “Alice Munro”, Northcote House, Tavistock, 2004.
Ajay Hebel, “The Tumble of Reason: Alice Munro’s discourse of absence”, University of Toronto Press, Toronto, 1994.
Sheila Munro, “Lives of Mother and Daughters: growing up with Alice Munro”, McClelland & Stewart, Toronto 2001.
B. Pfaus, “Alice Munro”, Golden Dog Press, Ottawa 1984.
Beverly Jean Rasporich. “Dance of the Sexes: art and gender in the fiction of Alice Munro”, University of Alberta Press, Edmonton, 1990.
Magdalene Redekop. “Mothers and Other Clowns: the stories of Alice Munro”, Routledge, New York, 1992.
Robert Thacker, “Alice Munro: writing her lives: a biography”, McClelland & Stewart, Toronto, 2005.
Robert Thacker, ed., “The Rest of the Story: critical essays on Alice Munro”, ECW Press, Toronto, 1999.
Approfondimento in rete:
http://nonsoloproust.wordpress.com/2007/02/14/nemico-amico-amante-alice-munro/
http://www.bibliosofia.net/files/nemico.htm
http://www.theparisreview.org/interviews/1791/the-art-of-fiction-no-137-alice-munro
Elettra Santori, 2012
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