Lattanzi Antonella

Devozione

Pubblicato il: 4 Agosto 2010

“Nikita e Pablo macinano la strada con le mascelle serrate, gli occhi sgranati gialli e grigi, addosso una patina di sudore e malattia. Non si guardano. Dietro, dentro, sopra, tutto intorno: rota”.

La “rota” è la crisi d’astinenza in cui versano, in alternanza allo sballo, Vera e Giuseppe, nickname Nikita e Pablo, coppia di studenti eroinomani che vivono insieme a Roma, quartiere San Lorenzo. Più che l’amore li unisce la comune frenesia del buco, forza maggiore che accentra pensieri e azioni e, come un Dio d’altri tempi, impone una devozione totale e divoratrice. Tutto il loro tempo è finalizzato alla comunione con la roba, scandito da una liturgia inesorabile: estasi, rota, allucinazioni, puzza di sudore marcio da astinenza che corrode i vestiti con un alone scuro, furti e bugie per trovare i soldi, corsa zoppicante dallo spacciatore di turno, poi di nuovo estasi e di nuovo rota. Devoti e febbricitanti come fanatici religiosi, i tossici del romanzo riescono a infliggersi inaudite mortificazioni in nome della roba, che in cambio non dà solo sballo, ma anche il compiacimento morboso della propria fatiscente grandeur. Perché in fondo il tratto più disperante degli eroinomani di “Devozione” è il narcisismo del degrado, vissuto come una prova di forza e di superiorità rispetto alla media umana.

Già il nickname che Vera si è scelto per sé – Nikita – è un nome da guerriera, perché «diventare tossica, in realtà, non era stato facile … aveva dovuto prima farsi accettare dal gruppo che fumava le canne, passare ad amicizie via via sempre più pericolose, forse già beccarsi l’epatite c, imbottirsi di metadone, impantanarsi in una dipendenza coi fiocchi da questa assurda droga dello stato, incontrare le roipnol il giorno del suo quindicesimo compleanno, poi valium tavor xanax darkene valsera pleigine lexotan minias, quindi trip, pasticche, anfe, oppio, cheta. C’era voluto tempo. Tanti trip dell’orrore. Impegno. Dedizione. Qualche coma etilico. Diventare Baby Gin Girl. Farsi scopare da tizi orribili. Ma chi la dura la vince». Prima aspirante ballerina, poi punkabbestia, Nikita viene introdotta all’eroina dalla sua amicamante Clara, che lei ribattezza Robespierre ‒ altro nome mitopoietico: dovrebbe evocare un protervo senso di giustizia che non ha orrore del sangue, ma quando Nikita viene stuprata a due dal Ratto, lo spacciatore con cui vive, e da un polacco ubriaco, Clara assiste allo scempio immobile e dolente, neanche ci prova a portare in salvo l’amicamante violentata, o a vendicarla, e a quel punto diventa evidente (a chi legge ma non a Nikita, troppo impegnata a idealizzare se stessa e il suo mondo) quanto sia inappropriato e mitomane quel nickname da rivoluzionaria.

Nikita, dal canto suo subisce lo stupro con l’autocompiacimento della vittima fiera della sua resistenza: «non sarà questa la prima né l’ultima volta che mi farete male … Non mi fai paura». Fascinazione estetica per il martirio, familiarità con l’infimo (quello che altri non avrebbero il coraggio di avvicinare), Nikita si guarda allo specchio, prova disgusto di se stessa, ma anche una specie di fierezza: «Sono belle, le braccia distrutte dei robbomani». Rileggersi nelle pagine di “Christiane F. Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino.”, rivedersi negli eroinomani cinematografici di “Amore tossico”, non la spaventa, anzi, è benzina per il suo narcisismo, gli dà un’impennata mediatica. E quando Pablo si invaghisce di un’altra, lei non se ne capacita: «Eppure sono io, quella speciale. Lo sono sempre stata, non c’è dubbio. E’ per questo che l’eroina mi ha preso. Perché sono diversa, più sensibile di tutti. E’ per questo che l’eroina non mi lascia. Lo dice anche David Foster Wallace: è statisticamente più facile liberarsi di una dipendenza per le persone con un basso QI che per quelle con un QI più alto».

Impropriamente presentato come «la storia di ogni nostra dipendenza», dell’inclinazione umana «a trasformare i desideri in mostri», “Devozione” non è in realtà metafora di niente; né potrebbe essere diversamente per un romanzo che non si scolla mai dal suo soggetto, lo azzanna come un animale da preda e dalla prima all’ultima pagina parla di eroina, astinenza da eroina e ricerca compulsiva di eroina ‒ una forma di dipendenza che del resto ha poco a che vedere con le altre, perché lo sfacelo psico-fisico che comporta non ha confronto. L’ossessione che muove Nikita e Pablo si trasmette per osmosi alla scrittura della Lattanzi, perfettamente mimetica nel restituire i pensieri esplosi di un eroinomane, le sue percezioni parossistiche e baroccheggianti («Mentre camminano, di colpo l’asfalto s’ingrossa e soffia, un serpente prossimo all’attacco o un colossale fascio di muscoli palpitanti. La strada ondeggia, si spacca ed erutta. I passanti sono insetti minacciosi … Ma è solo la rota a costruire castelli dell’orrore, ed è ogni giorno»). Per velocizzare la scrittura e farla respirare ‒ ansimare ‒ all’unisono con l’esistenza a mille giri dei tossicomani, la Lattanzi discioglie il discorso diretto in quello indiretto, la terza persona trapassa nella prima e ritorno, il flusso percettivo subisce un montaggio rapidissimo, da action movie. Si esce dal libro come si scende dalle montagne russe, e con una paura fottuta che chi amiamo possa cadere un giorno nella trappola dell’eroina.

Peccato però che il romanzo della Lattanzi terrorizzerà solo chi ha già ribrezzo di tutte le droghe, le madri angosciate al pensiero che i figli possano venirne risucchiati, o i disinformati che pensavano all’eroina come a un fenomeno archiviato, una droga anni Settanta-Ottanta, massimo Novanta, ormai in disuso.

Non spaventerà invece gli eroinomani sul genere della pseudo guerriera Nikita: mitomani col culto di sé, in cui il gusto dolciastro della mortificazione prevale sempre sulla fuggevole voglia di normalità. Loro probabilmente ameranno rileggere la propria vita in quella di Nikita, così come lei si esalta nella visione di “Amore tossico”: «Nonostante odiasse guadare Roma per arrivare sino lì, per la guerriera era un onore varcare quella soglia. E’proprio al sert delle Cinque Giornate, infatti, che si serviva Cesare di “Amore tossico”. Cesare, per Nikita, è una star. Per questo, ogni volta che si avvicinava con l’autobus 490 al chioschetto antistante il mitico sert, la guerriera si sentiva una vip».

Edizione esaminata e brevi note

Antonella Lattanzi (Bari, 1979) vive a Roma. Questo è il suo primo romanzo.

Antonella Lattanzi, “Devozione”, Einaudi, Torino 2010

Elettra Santori, 2010