Della Sicilia possono parlare solo i Siciliani? È la domanda che inevitabilmente sorge al termine di una lettura intensa, talvolta aspra come certi tratturi di riserve naturali che attraversano questa terra dai forti contrasti, quella che Enzo Biagi definì in un suo pezzo degli anni Novanta “l’isola degli italiani esagerati”.
Il siciliano Benedetto Conte, musicista sedotto dalla letteratura (a proposito di muse) racconta il lato peggiore dei suoi luoghi d’origine, quasi a voler far pace una volta per tutte con il loro volto meno splendente, con una “colpa” atavica e radicata che ha incatenato e tuttora lega ogni aspetto della società, perfino nelle sue manifestazioni più sincere e schiette: la mafia. Chi non è nato in Sicilia, o non ci ha vissuto un tempo sufficientemente lungo, non intende e non intenderà mai ciò che in forma romanzata (ma non tanto) Conte cerca di far capire. Sì, certo, la mentalità mafiosa intesa come rete di conoscenze altolocate che fanno favori in cambio di altri favori, non esitando a percorrere strade di clientelismo e illegalità, esiste ovunque. Ma la mafia siciliana è un’altra cosa.
A Libero, studente universitario di Palermo, capita di incontrare un ex “uomo d’onore” in un bar della città, immersa tra odori, colori e suoni che ricordano altre latitudini, altre geografie cui essa rimane inscindibilmente legata. “Zzu ‘Ntoniu” piano piano carpisce l’interesse, la curiosità e poi l’affetto del giovane, rendendolo depositario della vera storia di Cosa Nostra, quella che non c’è sui libri e che le cronache riportano solo parzialmente. Una storia che dal secondo Dopoguerra si dipana attraverso i decenni e le faide, dall’Onorata Società con un codice d’onore rigido alla presa di potere dei Corleonesi senza alcuno scrupolo, dai regolamenti di conti fra “uomini” – discreti e silenziosi benché terribili – al fiume di sangue che inonda Palermo per vent’anni senza alcun riguardo verso donne, bambini e coloro che alla mafia non appartengono ufficialmente.
L’autore alterna il racconto del presente con la memoria del passato: Palermo splendente, centro del mondo, conca d’oro di bellezze artistiche, brulicante di vita e di storia, crocevia di popoli che le hanno regalato ciascuno le proprie peculiarità e un nome. Palermo oscura, infida, luogo di mille corruzioni a tutti i livelli, da quelli politici a quelli ecclesiastici, erede di guerre e di segreti, tomba e prigione, centro di poteri illegali totalmente indifferenti all’esistenza di uno stato che nelle intenzioni originarie avrebbe dovuto migliorare le condizioni sociali e nella realtà ha usato (o si è illuso di poter usare) a suo vantaggio le antiche fila tenute da pochi “burattinai” esperti. Sullo sfondo, l’eroismo dei pochi coraggiosi rappresentanti della legalità che si sono opposti alla mafia, il cui sacrificio ha dato vita al Maxi-Processo (1986-1992, che si conclude con 475 imputati di cui 360 condannati per un totale di 2665 anni di carcere) e alla successiva Operazione Vespri Siciliani (1992-1998) con cui lo Stato italiano dopo le grandi stragi di mafia ha tentato di sconfiggere Cosa nostra.
Il racconto di Zzu ‘Ntoniu comincia da un ragazzino che viene “iniziato” all’Onorata Società. Figlio di un uomo d’onore legato a un potente padrino, Antonio a quindici anni diventa “picciotto”. Non riesce tuttavia a sentire suo quel mondo, nonostante l’affetto per il padre e perfino per il padrino, cui tutti sono legati da questo doppio filo di rispetto timoroso e di sincera stima. La giovane Sara, cresciuta all’ombra del padrino ma incredibilmente libera nel pensiero e nelle scelte, aiuterà Antonio nel suo percorso. La mafia tuttavia non permette ai suoi affiliati di sfuggirle e Antonio per salvarsi dovrà emigrare. A Sara è riservato un destino diverso, che Antonio scoprirà davvero solo molti anni dopo, quando ormai quasi vecchio, riuscirà a tornare nella sua città.
Parlare di mafia, oggi, in Sicilia, è ancora difficile. La parte sana della popolazione abbassa lo sguardo e sembra caricata di un peso insostenibile quando si cerca di capire facendo domande che non hanno risposta. Ci si scherza, magari, come si fa con i discorsi sulla morte. Ma fa ancora paura. In un’intervista di poco tempo fa al paese di Matteo Messina Denaro, veniva chiesto alla gente che cosa avesse fatto di male quest’uomo, pluriricercato e plurilatitante, uno degli ultimi esponenti dei clan più noti. Piuttosto tranquilli, alcuni rispondevano: male? A noi? Ma una brava persona è, anzi! Ci ha trovato lavoro, casa, tutti cose.
A dire insomma che la mafia è in testa, prima che nelle fondine delle pistole.
Non so se con questo romanzo/saggio Benedetto Conte abbia raggiunto lo scopo di spiegare un fenomeno così difficile in realtà da comprendere come la mafia. Che va inserito nel contesto di un mondo legato a tradizioni antiche, ad antichi splendori e ad antiche miserie. Con una concezione dei comportamenti, dei rapporti umani e dell’intera vita che a noi settentrionali del continente lascia perplessi, preda come siamo di individualismi sovrani, e privi di legami di parentela che vadano oltre il proprio stretto nucleo familiare. Tutto in Sicilia abbaglia, e si rischia di non cogliere il chiaroscuro e le ombre lunghe che percorrono questa terra e l’animo di chi ci vive affrontandone quotidianamente i contrasti.
La finzione del racconto del vecchio uomo d’onore al ragazzo, apprezzabile nell’impianto letterario, soffre di qualche sbavatura narrativa: la prima persona usata dal narratore e dal suo interlocutore creano talora confusione. Libero, studente un po’ per caso, chiaro alter-ego dell’Autore, è un personaggio inconsistente, poco approfondito rispetto al vecchio Antonio (non sappiamo se abbia famiglia, non ha altri rapporti che con Antonio): vien quasi il sospetto che sia un amico immaginario dell’anziano uomo d’onore che alla fine dei suoi giorni ha bisogno di sgravare la coscienza e di far pace con i ricordi. Ben delineate risultano invece le figure di contorno: la vecchia Zzà Maria, il padrino don Ninì, che emergono dal passato e rivivono nella lucida memoria dell’antico picciotto. E Sara, la donna amata in gioventù da Antonio, Musa per eccellenza: niente in lei è fuori posto, esprime bellezza e perfezione, spirito di sacrificio e sottomissione pur in un’indole libera da schemi mentali, come a dire insomma che la libertà interiore non è estranea o impossibile neppure negli ambienti così devastati delle famiglie mafiose.
Due parole sulla scelta linguistica, a mio parere apprezzabilissima dai conterranei dell’Autore ma decisamente ostica per una buona fetta della popolazione italiana. Molte parti in siciliano sono tradotte, altre restano originali, e temo incomprese, anche perché chi non conosce i suoni di questa lingua difficilmente riuscirà a udirne la musicalità e non c’è nessun Montalbano, per ora, ad aiutarci a capire con le immagini ciò che alle orecchie resta estraneo.
Quello dell’Autore è alla fine un canto dolce e triste, come i canti inseriti nel testo a impreziosire il racconto, che passa con il vento caldo africano e si perde nelle campagne riarse. È il canto di chi ama la propria terra e non può vederla morire lentamente sotto i colpi dell’indifferenza o svendere al peggior offerente solo perché ben armato. Al ferro (le armi, appunto), alla paura, all’omertà che alimenta il cancro mafioso, Conte contrappone le Muse, cioè l’arte intesa come cultura del giusto, della legalità, della coscienza civile che vince i poteri cosiddetti forti, che può recidere le reti di acciaio di infernali pescatori d’anime e le corde di burattinai senza scrupoli per restituire dignità, onore e bellezza alla Sicilia, piccolo angolo di Paradiso piovuto in un angolo di Mediterraneo.
Il cammino fatto da uomini come Falcone e Borsellino fu una vittoria per la democrazia, ma pensavo che prima ancora fosse stata una vittoria dell’uomo. Pensavo che i tempi, finalmente, fossero maturi perché fosse avviata un’altra fase, quella che da Via D’Amelio, da Capaci, doveva portare necessariamente ad un scelta di piena e matura consapevolezza da parte di noi siciliani, soprattutto dei palermitani. [p. 88-89]
Ilde Menis, 21 marzo 2017: Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie
Edizione esaminata e brevi note
Benedetto Conte, musicologo, compositore, scrittore, chiatarrista, è nato a Palermo dove ha iniziato gli studi musicali, conseguendo la laurea in Discipline della musica e in Musicologia e Beni musicali. Ha conseguito svariate specializzazioni e oggi è docente a Pescara di Contemporary Guitar presso la Scuola Civica Musicale di S.Giovanni Teatino (Ch) e presso l’Accademia Professione Musica di cui è fondatore e direttore artistico. Ha insegnato presso la scuola di recitazione del Teatro Stabile Biondo di Palermo e ha al suo attivo numerose pubblicazioni discografiche nazionali e internazionali. È autore di saggi di interesse musicale e di sociologia della musica [dalla quarta di copertina].
Benedetto Conte, Il ferro e le muse, Carabba, 2016
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