“Nella vita l’amore può non essere necessario, ma è indispensabile per poter bussare alle porte dell’aldilà. Se avessi ucciso per amore, la mia creatura sarebbe ora su quel divano, viva ho e palpitante. Ma ho ucciso senza amore, solo per l’ambizione di creare una vita, ottenendone solo il più rozzo simulacro: uno scheletro” (pp.47). Così don Guillen de Orzúa y Rosales nel racconto “Il vampiro”. Affermazioni di un personaggio ormai prossimo ad abbandonare questa vita ed anche sintesi di quanto possiamo leggere nell’opera dell’ecuadoregno Horacio Quiroga: morte, amore e follia. Pensiamo anche al racconto “L’aldilà”: transitorio rifugio per due giovanissimi amanti suicidi – ancora una variazione sul tema amore e morte – consapevoli di dover svanire in un luogo del tutto ignoto.
Tutti temi che – non c’era da dubitarne – ritroviamo ben rappresentati nella raccolta edita dalla salernitana Arcoiris. Pagine dove l’idea del trapasso ad altra vita (non necessariamente ultraterrena) convive con una frequente atmosfera di incubo, malattia mentale, soprannaturale e quotidianità: in sostanza racconti in cui il tema della morte fisica non rappresenta sempre una costante; basti pensare a “La signorina leonessa”, “La bella e la bestia” oppure a “In assenza”, dove semmai la fa da padrone il fantastico, nel senso più tradizionale del termine, per poi proseguire con opere in cui invece prevale un copione ricco di elementi ambigui, grotteschi e misteriosi.
Da questo punto di vista possiamo ricordare le parole del professor Vito Galeota, che allo scrittore urugayano ha dedicato una monografia: “tracciare una grammatica del [ndr: suo] racconto […] è possibile ma molto difficile data la varietà tipologica delle raccolte e il numero di testi prodotti”.[1] Un tentativo di analisi della struttura del “cuento” di Quiroga, ovvero l’individuazione degli “avvenimenti unici”, delle sequenze, dei possibili finali a sorpresa, della posizione del narratore (“egli si trova sempre all’interno della situazione, non è mai onnisciente e mai onnipresente”), della mancanza di descrizioni, che poi giunge a delle conclusioni del tutto coerenti con quanto letto in “L’aldilà”: “la scarsità delle retrospezioni e delle anticipazioni […] tutto ciò unitamente ad altri elementi caratterizzanti la forma narrativa breve, fanno del racconto di Quiroga un tipo di scrittura moderna, che prende le distanze tanto dalle forme del narrare letterario classico di fine Ottocento quanto da quelle coeve moderniste”.[2] Così anche Vanni Blengino: “Uno stile sempre più depurato, grazie ad una sintesi narrativa che è funzionale alle sue brevi e tremende storie”.[3]
Una scrittura moderna che la critica ha quindi inteso nel senso di linguaggio figurativo e in particolare “cinematografico”. L’attrazione verso la settima arte probabilmente non è nemmeno da intendersi soltanto da punto di vista formale, ovvero come costruzione di racconti che prediligono il punto di vista del soggetto del racconto e non quello del narratore. In Quiroga, infatti, è evidente l’interesse proprio per le immagini incorporee – potremmo dire cinematografiche – che vivono di vita propria, alla stregua di fantasmi di nuova generazione. Ricordiamo racconti come il già citato “Vampiro”, oppure “Il puritano”: “Le star che ci sopravvivono – alle quali abbiamo tante volte affidato le nostre anime – sono, con i film in cui essere ancora si agitano, l’unico argomento delle nostre conversazioni notturne […] Viviamo per un istante: un solo, forse eterno, istante spettrale” (pp. 101).
Se poi è vero, come ha scritto Giuseppe Bellini, che nei racconti di Quiroga, in quelli maggiormente assimilabili al “criollismo”, “la selva, i fiumi, gli animali grandi e piccoli dei boschi, gli alberi stessi, acquistano movimento e una spiritualità impressionanti”[4], non possiamo non cogliere come anche la natura più violenta e letale possa rappresentare – ad esempio in “Le mosche (replica de L’uomo morto)” – lo strumento per analizzare i pensieri di un uomo ormai prossimo ad abbandonare la vita e la ragione: “La mia disperata ansia di sopravvivere si placa, lasciando il posto a una beata rassegnazione. Sento che il dolore non mi tiene più avvinto alla terra: fuoriesco da me, come la vita stessa, e mi confondo con la luce del sole e la soave bellezza della natura” (pp.56).
Racconti che, nella loro eterogeneità, fanno pensare ad un Quiroga difficilmente assimilabile tout court ad un singolo movimento letterario: semmai, volendo citare ancora una volta la migliore critica, “il primo grande scrittore ispanoamericano di cuento moderno con una produzione copiosa, frutto di un’ininterrotta attività di cuentista, e maestro venerato di generazioni di scrittori”.[5]
[1] Vito Galeota, “La configurazione del cuento moderno ispanoamericano: Horacio Quiroga”, Aracne (collana “Studi americani, culturali e linguistici”), Roma 2005, pp.115.
[2] id, pp.124.
[3] Vanni Blengino, “Storia della Letteratura Ispano-Americana”, Newton, Roma 1997, pp.65.
[4] Giuseppe Bellini, “La letteratura ispano-americana”, Sansoni (collana “Le letterature del mondo”), Firenze 1970, pp. 401.
[5] Vito Galeota, “La configurazione del cuento moderno ispanoamericano: Horacio Quiroga”, Aracne (collana “Studi americani, culturali e linguistici”), Roma 2005, pp.11.
Edizione esaminata e brevi note
Horacio Quiroga (Salto, 31 dicembre 1878 – Buenos Aires, 19 febbraio 1937) è stato uno scrittore uruguaiano. È considerato il fondatore del racconto ispanoamericano moderno e uno dei più importanti autori di racconti del mondo ispanoamericano.
Horacio Quiroga,“L’aldilà”, Edizioni Arcoiris (collana “Gli Eccentrici”), Salerno 2016, pp. 176. Traduzione di Francesco Verde
Luca Menichetti. Lankenauta, marzo 2017
Follow Us