Pedullà Gabriele

Lame

Pubblicato il: 15 Aprile 2017

Passeggiando per Villa Borghese una mattina di febbraio, Ruggiero e Olimpia, marito e moglie quasi quarantenni, scoprono per caso la cosiddetta Chiesa di Nostra Signora della Rotella, una compagnia di pattinatori “revivalisti” che si riunisce ogni domenica al Pincio per celebrare gli anni Ottanta danzando in cerchio al suono di vecchi successi pop ed elettro-pop. Vestiti in abiti rétro o in puro stile Eighties, i pattinatori di Nostra Signora si rivelano subito tipi allegri e autoironici, poco interessati alla perfezione del lutz e del flip, ma anche molto diversi da quei rollerblader ossessionati dall’ «agonismo della velocità» che fino a qualche anno prima Ruggero e Olimpia avevano visto sfrecciare su percorsi a slalom tra le lattine di Coca-Cola in quello stesso angolo del Pincio. Sospinti dalla nostalgia del pattinaggio che avevano praticato in adolescenza, i due diventano assidui spettatori di quel rito domenicale, fino a quando non decidono anche loro di infilare i rollerblade (i pattini in linea, le “lame” a cui allude il titolo del libro) e di unirsi alla compagnia.

Quel che succede in seguito nella vita di Ruggiero e Olimpia si sviluppa in una storia esilissima, che lascia cadere uno dopo l’altro i potenziali intrecci e intrighi che una comunità di pattinatori avrebbe potuto offrire ad una narrazione, e imbocca la strada puntinista dell’osservazione bonaria, del ritratto schizzato e della tassonomia semiseria di certi paraphernalia tipici degli anni Ottanta. Con un’andatura da flâneur a passeggio per Villa Borghese, la scrittura procede curiosando qua e là nelle situazioni e nelle vite dei pattinatori, dragando le petites madeleines dei ricordi dal passato più o meno lontano dei due protagonisti. Il suo girovagare è il doppio linguistico del “girare in tondo” di Ruggiero e Olimpia, della ciclicità delle loro domeniche al Pincio e delle loro pattinate in cerchio: un falso movimento che riempie la vita, ma non la cambia per davvero; nemmeno quando un evento – l’unico strappo che la trama si conceda alla quieta rotondità del suo procedere – si affaccia improvviso e impensato nella quotidianità di Ruggiero, restando tuttavia conchiuso dentro di lui come un’ischemia silenziosa e asintomatica.

Sono “lame” che non tagliano, quelle del titolo del romanzo. Lame a rotelle, inoffensive, che non scalfiscono la superficie come fanno invece i pattini da ghiaccio, ma proprio per questo possono essere metafora dei nostri tempi più e meno recenti. I rollerblader del Pincio che sfrecciano tra le lattine gareggiando in linea retta sono solidi e dinamici, ma a Ruggiero e Olimpia danno l’impressione di appartenere ad un altro tempo, o forse ad un’altra temporalità: quella lineare delle vite in ascesa, ancora dense di prospettive e ambizioni ma volgarmente innamorate della velocità e della competizione (già Milan Kundera nella “Lentezza” aveva fatto della velocità, e del suo cascame, la volgarità, un attributo della vita moderna). Nelle loro sfide sui pattini traspaiono violenza e impeto: «Pesantezza era il termine appropriato […] Nonostante sfrecciassero così veloci […] ai loro occhi quei ragazzi rimanevano prigionieri dell’asfalto».

La Chiesa di Nostra Signora, invece, sembra celebrare una temporalità circolare, postmoderna, più leggera (perché senza scopo) ma anche più vacua. Persa la spinta ascendente dei propositi di carriera e di mobilità sociale, ma anche quella etico-politica del progettare il mondo, si rimane intrappolati in un «illusorio dinamismo», «condannati a girare all’infinito […] come tutti coloro che, per quanto si affannino, non arrivano da nessuna parte perché non c’è un posto che intendano raggiungere davvero, e allora girano, girano, girano ancora: unicamente perché non saprebbero cos’altro fare, per abitudine, o perché, girando, per qualche ora riescono a stordirsi col proprio stesso moto».

Seconda prova narrativa di Gabriele Pedullà, “Lame” si ricollega idealmente ai racconti de “Lo Spagnolo senza sforzo” di cui riprende l’uso del discorso indiretto libero (in terza persona, ma saldamente embedded nel punto di vista quasi fusionale dei due protagonisti), con un periodare dalle ampie campate, che rotola sulla pagina come una slavina controllata. Con i suoi modi eleganti, la scrittura di Pedullà inocula poco alla volta un’impalpabile inquietudine, congeniale alla rappresentazione di tecnocrati medioborghesi, tiepidi e incapaci di affrontare di petto le loro frustrazioni, maestri di dilazioni e diversivi che lascino sostanzialmente intatta la loro comfort zone.

Edizione esaminata e brevi note

Gabriele Pedullà (Roma 1972) insegna Letteratura italiana presso l’università di Roma 3 ed è stato visiting professor a Stanford e UCLA. Ha pubblicato tre monografie saggistiche: su Beppe Fenoglio (La strada più lunga, Donzelli 2001, Premio Marino Moretti), sulla condizione del cinema e delle altre arti nell’epoca degli individual media (In piena luce, Bompiani 2008: tradotto in inglese da Verso nel 2012) e su Machiavelli (Machiavelli in tumulto, Bulzoni 2011: tradotto in inglese per Cambridge University Press). Tra le sue cure: AAVV, Racconti della Resistenza (Einaudi 2005); AAVV, Parole al potere. Discorsi politici italiani (Bur 2011); Niccolò Machiavelli, Il principe (Donzelli 2011: introduzione e commento tradotti in inglese, spagnolo e portoghese); Beppe Fenoglio, Il libro di Johnny (Einaudi 2015) e, assieme a Sergio Luzzatto, l’Atlante della letteratura italiana (Einaudi 2010-12). Presso Einaudi ha pubblicato anche i suoi libri di narrativa: la raccolta di racconti Lo spagnolo senza sforzo (2009, Premio Mondello Opera prima, Premio Verga, Premio Frontino) e il romanzo Lame (2017). Collabora con il supplemento culturale della domenica del «Sole 24 Ore».

Gabriele Pedullà, Lame, Einaudi, Torino, 2017

APPROFONDIMENTO IN RETE

Sul sito Einaudi.

Sul Secolo d’Italia

Sul Corriere della Sera

Su Il manifesto

Su L’eco di Bergamo

Su Il mattino