Villaggio di Diama Fara, regione di Kaffrine, martedì 23 maggio 2017
Mi sveglio almeno tre volte nel corso della notte, sempre con la maglietta madida di sudore ed una forte sete. L’ultima volta capita intorno alle sei a causa del gallo che effettivamente fa il suo lavoro di cantare all’alba. La vita nel villaggio inizia presto, sento le donne trafficare nella cucina, i bambini andare verso il bagno e il padre camminare nell’orto.
Esco dalla mia stanza, la temperatura è piacevolmente fresca, mi siedo in cortile a leggere, Jamie esce poco dopo. La colazione consiste in un panino con del burro e del caffè solubile senza zucchero, a Jamie piace amaro. Pamatar viene a salutarci: ha degli affari da sbrigare a Mabo, la città più vicina, e starà via tutto il giorno. Indossa uno sgargiante vestito azzurro con cappuccio.
Finito di mangiare prendiamo il secchio e andiamo a riempirlo allo stesso rubinetto di ieri. In genere sono le donne che vanno a prendere l’acqua la mattina e la sera, oggi però ne incrociamo un gruppo che pulisce la strada principale con ramazze, scope e sacchi di tela per i rifiuti. Lo fanno ogni settimana e anche nelle grandi città non è raro vedere scene simili. Dove non arriva l’amministrazione locale, ci pensano i cittadini.
Jamie approfitta della passeggiata per passare in alcune case là vicino per controllare lo stato di un lavoro che ha intrapreso con alcune signore: si tratta di sacchetti di plastica chiusi a cilindro e riempiti per metà di terra e per metà di concime. Devono essere lasciati macerare qualche tempo prima di piantarci il seme che una volta cresciuto viene trapiantato nell’orto. Un modo efficace per assicurarsi che la pianta non muoia subito. Come parte del suo lavoro, Jamie ne ha distribuiti parecchie decine per il villaggio, la maggior parte a donne.
Ispezioniamo tre case con tre giardini e tutto sembra essere regolare, il terriccio è ancora in fase di macerazione e tra poco sarà pronto per ricevere i semi. Torniamo a casa con l’acqua e poi ci spostiamo nella boutique di famiglia. Astou, che in genere la gestisce, vuole andare con le altre donne a pulire la strada e ci ha chiesto di badare al negozio. Il locale in sé è molto piccolo: è diviso a metà da un bancone di legno, le merci in vendita comprendono, cipolle, aglio, alcune spezie, qualche caramella, caffè solubile, pane, biscotti e poco altro. Attaccati allo stipite dell’entrata sono appesi dei legnetti legati insieme che servono a favorire gli affari.
Mi siedo su una scomodissima sedia di metallo all’ingresso: ho con me un libro di proverbi africani regalatomi dalle mie colleghe e così comincio a leggerne qualcuno. Un paio di bambine vengono a prendere del pepe e dell’aglio e poco dopo Astou torna dalla pulizia. Insieme a lei arriva una ragazza che vende blocchi di ghiaccio appena arrivati da Mabo. Ne acquistiamo uno e lo mettiamo dentro una sorta di tanica termica in camera di Jamie.
C’intratteniamo un po’ con Astou: nelle famiglie poligame ogni moglie si occupa dei suoi figli e ha delle mansioni ben definite, quella di Astou è proprio la bottega: questa è piuttosto recente, venne inaugurata quattro anni fa grazie all’aiuto di Lamine, uno dei figli di Astou che da dieci anni si è trasferito a Mbour dove ha aperto un negozio di ferramenta. L’attività è iniziata con la semplice vendita di ghiaccio la sera durante il mese del Ramadan e poi si è ampliata. Fino all’anno scorso era il marito ad occuparsene, ora però lui ha deciso di concentrarsi su altro e ne ha affidato la gestione ad Astou, che spesso si fa aiutare dalla piccola Astou, che però è figlia di Njaba, la prima moglie.
Astou è originaria di un villaggio a nord di Kaffrine, dopo aver sposato Pamatar come seconda moglie, hanno vissuto qualche anno in Gambia prima di venire qui a Diama Fara. Gli chiedo com’era la vita in Gambia e lei risponde che è molto meglio qui, si mangia meglio e le persone sono più simpatiche. Delle tre mogli, Astou è quella che Jamie considera più “sua madre” e vedendo lo sguardo fiero e il piglio deciso con cui parla della sua boutique, ne capisco il motivo.
Lasciamo il negozio e torniamo in camera di Jamie: mischiamo l’acqua filtrata con quella fredda appena scioltasi e ci aggiungiamo un concentrato di frutta che Jamie ha portato dall’America. Meno di un giorno passato a bere acqua calda e leggermente salata e questa bevanda fresca mi pare un lusso impagabile.
Per ingannare il tempo prima del pranzo le insegno a giocare a scopa, da bravo veneto ho infatti con me un mazzo di carte trevigiane: lei non ha problemi a capire le regole ma solo qualche incertezza nel riconoscere gli assi e le figure. Riesco ad arrivare per primo a ventuno punti, ma sono abbastanza sicuro che se dovessimo giocare di nuovo mi darebbe del filo da torcere.
Njaba arriva con il pranzo verso le quattordici: ieri c’era yassa, oggi invece l’altro grande classico della cucina senegalese, il ceebu jen, riso con verdure cotte e pesce. Questa è la versione “bianca”, senza il concentrato di pomodoro, ma con l’aggiunta a parte di una salsina verde fatta con fiori d’ibisco. Le verdure comprendono carota, cavolo, patata dolce, manioca ed un minaccioso peperoncino arancione. Il Senegal in generale ha una situazione migliore rispetto ad altri paesi africani e la gente non fa la fame, tuttavia l’alimentazione non è certo delle più varie: la colazione spesso è costituita dagli avanzi del cous cous serale oppure un panino con il burro; il pranzo, il pasto principale, è a base di ceebu jen o di yassa; per cena il piatto più comune è cous cous di miglio con qualche salsa per condimento. La carne è un lusso riservato alle feste e la frutta è strettamente di stagione e comunque non molto comune. Chiaramente il concetto di alimentazione è un po’ diverso dal nostro ed è ovviamente influenzato dalla disponibilità economica, che spesso è limitata. Questo non vuol dire che non esistano altri buoni piatti tradizionali: il domodà, una sorta di stufato c
on carne, verdure e pomodoro, il maffè, fatto con la pasta d’arachidi, la soupe kandja a base di carne e olio di palma e le fataya, frittelle ripiene di pesce secco o carne. La cucina senegalese vale la pena di essere esplorata in tutte le sue varianti.
Finito di mangiare riporto i piatti a Njaba e dico una frase in wolof che Jamie mi ha appena insegnato e che significa “era molto buono sono pieno”. Lei mi sorride e annuisce, apprezzando lo sforzo di dire qualche parola nella sua lingua.
Il martedì pomeriggio a Diama Fara è dedicato alla riunione delle donne: il punto d’incontro è lo spiazzo ombreggiato nei pressi del pozzo e dietro la moschea, proprio di fianco a casa di Jamie. Le donne senegalesi hanno un particolare talento nel parlare ad alta voce tra di loro e infatti già ben prima dell’orario prestabilito per l’incontro cominciamo a sentire i discorsi delle prime arrivate.
Le signore si dividono in tre gruppetti di circa una ventina ciascuno, si siedono su stuoie per terra, alcune invece si sono portate una sedia da casa. L’usanza delle donne del villaggio di riunirsi è comune a tutto il Senegal e molto spesso sono proprio le cooperative di donne che collaborano con le ONG per lo sviluppo di progetti sul territorio ed è innegabile che il ruolo delle donne per il miglioramento delle condizioni di vita sia fondamentale. In questo villaggio si sono organizzate in una sorta di banca popolare: tutte le partecipanti versano una quota fissa, questa viene messa da parte e usata per fare prestiti a quelle che lo richiedono. La somma verrà poi restituita con un 10% d’interesse e il fatto che il tutto avvenga in pubblico rende particolarmente difficile che qualcuno non restituisca il dovuto. Le donne in genere usano questi prestiti per procurarsi le risorse per viaggiare nei villaggi vicini o per sostenere i loro piccoli commerci.
Questo procedimento è simile ad un altro chiamato tontine, dove praticamente ogni settimana le partecipanti versano una somma fissa, in genere 1.000 o 2.000 franchi, poi si tira a sorte e quella che viene scelta si porta a casa il totale. Jamie mi ha rivelato che Astou partecipa anche ad un altro gruppo dove appunto fanno così, purtroppo però 2.000 franchi a settimana non è una cifra che molte possono permettersi.
Una alla volta salutiamo tutte le signore dei vari gruppi: l’età varia dai venti ai settanta, sono tutte sposate e alcune di loro si sono portate i figli piccoli al seguito. Stringo le mani a tutte e Jamie ripete pazientemente chi sono, dove abito e che ci faccio qui. Ci sediamo con le donne del terzo gruppo. Jamie ha preso l’abitudine di fare da contabile e così si siede sulla stuoia e comincia a contare i soldi, io mi siedo poco distante, su una radice particolarmente scomoda. Non è facile capire come funzioni la cosa: io vedo solo un continuo movimento di banconote che prima arrivano al centro e poi se ne riallontanano in un’altra direzione, Jamie segna tutto su un quaderno.
Per ingannare il tempo acquisto un sacchetto di arachidi da una delle signore e le offro alle mie vicine. Nel gruppo di fianco al nostro nel frattempo, Astou sembra litigare con un’altra signora e se ne va portandosi dietro la sedia. Davanti a me un bambino sfugge alle braccia della madre e comincia a mettersi in bocca tutto quello che trova per terra. La madre lo vede e lo ferma, ma non ne sembra particolarmente disturbata.
Un’ora e mezza più tardi la seduta viene sciolta. Le signore si alzano e tornano a casa, noi invece abbiamo da fare: da qualche tempo Jamie lavora con alcune signore per convincerle a piantare alberi di anacardo nelle loro proprietà e a questo scopo si è fatta dare dai Peace Corps un centinaio di semi da distribuire. Ieri a quest’ora, li ha messi a mollo in un secchio, cambiando l’acqua ogni sei ore perché è così che i semi danno il loro meglio e adesso vorrebbe cominciare a distribuirli. I semi di anacardo hanno una forma a mezzaluna, sono verdastri e lunghi circa un paio di centimetri. Al loro interno si trova la parte commestibile del frutto, quella che una volta tostata viene poi venduta. La cosa curiosa di questo seme è che cresce sotto ad un frutto rosso acceso simile ad una mela, molto morbido e succoso, la buccia è spesso amara ma la polpa ha un ottimo sapore. La domanda di anacardi sembra essere in crescita e in effetti sono tra le merci più costose anche qui in Senegal. Possederne degli alberi potrebbe rivelarsi un buon investimento per il futuro.
Con i semi in una sacca di tela ci dirigiamo verso l’altro lato del villaggio, in una zona che definirei “periferica”, con meno case assai distanziate. Visitiamo una prima casa: Jamie mostra alla signora come piantare il seme, la parte concava deve andare verso il basso, in questo modo germoglia meglio. La seconda signora ha un vero e proprio terreno recintato con diversi tipi di piante. I cilindri con il terriccio sono coperti da una zanzariera per proteggerli e sono pronti per accogliere i semi. Uno dei vicini si avvicina incuriosito dalla mia presenza, parla un po’ di francese e così scambiamo due parole. Sembra essere contento del lavoro di Jamie nel villaggio e aggiunge che qui in Senegal c’è tutto il potenziale, c’è la terra, ci sono le braccia, ci sono i mezzi, manca però la conoscenza, mancano figure specializzate che possano formare gli abitanti dei villaggi. Io credo che in Senegal ci sia più una mancanza di mezzi chedi conoscenza, ma ognuno ha le sue opinioni.
La tappa successiva è una casa dalle parti del secondo pozzo del villaggio: la signora che stiamo cercando al momento è assente, troviamo due ragazze più giovani intente a sgranare il miglio nel mortaio. Questo è fatto di legno e per battere viene usato un grosso bastone di circa un metro e mezzo che le ragazze maneggiano con una naturalezza sconcertante. Una di loro di esibisce pure in qualche virtuosismo, battendo le mani mentre il bastone è per aria. La padrona di casa arriva poco dopo e quindi possiamo andare a vedere la situazione del suo terriccio.
Jamie dà qualche consiglio finale alla signora e poi ripartiamo. Quest’ora del giorno, subito prima del tramonto, è forse la più bella: una luce dorata pervade tutto, l’aria è piacevolmente fresca, i pastori tornano verso casa, le donne vanno a prendere l’acqua e tutto sembra pacifico. Sembra facile per me, straniero, bianco, abituato alla vita di città, vedere in questo luogo un paradiso di tranquillità e di pace. Ma pure qui i problemi non mancano e le condizioni di vita sono spesso difficili. Anche le possibilità per i giovani sono molto limitate e molti di loro infatti preferiscono andarsene altrove per cercare fortuna.
Passiamo di fianco ad un albero di mango dove una folla di bambini armati di bastoni e sassi sta cercando di far cadere il maggior numero possibile di frutti. Devono essere stati convocati dal padrone dell’albero con la promessa di una percentuale, ma si vede che si divertono molto.
L’ultima tappa della giornata è il giardino di un signore chiamato da tutti Mohamed Kaolack solo perché ci ha vissuto per molto tempo. Il suo terreno è circondato da un alto muro e sembra quello meglio tenuto: per terra si vedono distintamente i segni della zappa e tutto sembra ben organizzato in maniera logica. Lui non avrà più di trentacinque anni e Jamie mi ha detto che è quello più “professionale” tra le persone con cui lavora.
Torniamo a casa fermandoci un paio di volte per spiegare ad alcuni passanti curiosi chi sono. Una volta a casa incontriamo Pamatar, è tornato da Mabo: con Jamie si mettono a dare un’occhiata ai cilindri di terriccio nel suo giardino, anche questi dovranno presto essere seminati. Per cena anche oggi c’è il cous cous ma con una salsa differente, a base di foglie di una pianta locale. Ha un buon sapore, fresco e leggero.
Come ogni sera, Pamatar si distende ad ascoltare la radio dopo aver armeggiato qualche minuto con l’antenna per trovare il segnale. Noi ci distendiamo là vicino con qualcuno dei bambini. Dopo pochi minuti arriva uno dei vicini in visita: si tratta dell’insegnante di francese della scuola del villaggio. Viene dalla regione di Thiès, si è trasferito qui da qualche anno, ma mi confessa che vorrebbe tornare a casa perché la sua famiglia è là e non riesce a visitarli tanto spesso.
Io e Jamie ci ritiriamo nelle rispettive stanze, il caldo nella mia sembra essere meno intenso rispetto a ieri ma devo comunque asciugarmi più volte il sudore dalla fronte prima di addormentarmi.
Links:
https://it.wikipedia.org/wiki/Cucina_senegalese
Francesco Ricapito Giugno 2017
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