“La grande A”, romanzo d’esordio di Giulia Caminito, affonda la propria essenza direttamente nelle pieghe e nelle memorie familiari dell’autrice. Non furono pochi gli italiani che, tra gli anni quaranta e cinquanta nel 900, tentarono la fortuna nelle colonie d’Africa. Tra di essi anche la nonna della Caminito e, prima ancora, la sua bisnonna. Una pura storia di donne, dunque, trasmessa necessariamente a parole, immagini e altri racconti da una nonna a sua nipote. Materia umana ed emozionale che è poi confluita, con il dovuto supporto della “fiaba” letteraria, in questo affascinante romanzo. Quasi come fosse un omaggio alle proprie radici, la Caminito ha recuperato un tempo e dei temi che raramente compaiono nella narrativa italiana: poco si sa o poco si dice di chi, nella prima parte del secolo scorso, ha lasciato l’Italia per trasferirsi in Etiopia o in altri territori africani. L’Adi e sua figlia Giada lo hanno fatto.
Giada è solo una bambinetta striminzita costretta a vivere a Legnano con una zia obbligata a tenersela. Sua madre Adele, o Adi come tutti la chiamano, sta in Africa. Guida camion come fosse un uomo e contrabbanda quel che capita. Giadina è rimasta in Italia ma in Italia c’è la guerra, i fascisti e pure il coprifuoco. Certe volte bisogna scappare a nascondersi per colpa dei bombardamenti e a casa non è sempre facile tra i rimproveri della zia, il cibo che non basta e la nonna manesca con la quale dover condividere anche il letto. Giadina sogna di potersene andare, un giorno. “Lei i soldi delle mance, che le davano per prendere dal panettiere le loro razioni di un filoncino e mezzo a testa con la tessera annonaria, li conservava gelosamente. Sarebbero diventati dieci e poi venti e poi cento e poi mille e poi una lira, due lire, venti lire, cento lire. Con cento lire si partiva, persino la Nonna lo canticchiava. Con cento lire si partiva per forza, e la Grande A era dietro l’angolo. Con la Mamma a cacciare tigri, lì doveva essere pieno, di ossa lunghe lunghe, e tigri“.
La speranza si fa più forte quando la guerra finisce: la mamma sarebbe di certo tornata. “Ma non poteva mai chiedere quando, perché partivano altri schiaffi. Nessuno aveva tempo di star lì a capire dove fosse sua madre. Le giovani si fidanzavano con gli americani, le vecchie si ricompravano le calze di nailon. Ognuno aveva il suo bel da fare“. Giada è un po’ più grande e dopo la terza media viene mandata a lavorare in una fabbrica tessile, una delle tante. Poi, nel 1949, l’Adi si fa trovare direttamente in casa, rossetto rosso pomodoro, gambe accavallate e sigaretta in mano. Battagliera ed aggressiva come sempre si rivolge alla sorella rimasta in Italia: “t’ho mandato quattromila lire per una macchina per cucire, devi darmi quella, le diecimila lire del libretto, la dote della Giada e un pacchetto infiocchettato, come dici tu, con le tue sentite scuse“. Ed è così che Giada, dopo un’infinita attesa, parte alla volta della grande A.
L’Africa immaginata da Giada ha poco a che fare con la collosa e polverosa calura di Assab. In questa cittadina africana sua madre ha messo su un bar. E Giada, che aveva sperato in una cameretta con le tendine rosa, si ritrova a dover dormire nell’anghareb, una sorta di brandina appoggiata per terra e lasciata sotto le stelle ché tanto in Africa non piove da anni. Giada si adatta in fretta e fa quello che sua madre le chiede di fare. Impara a conoscere il garzone Hamed, di cui diviene amica in fretta, impara che le gazzelle catturate dai Diavoletti possono essere addomesticate e, dopo un po’, conosce pure Giacomo. Bello come Cary Grant ma sposato troppo in fretta e solo perché costretta dall’Adi che l’aveva sorpresa a scambiarsi un bacetto col ragazzo. Giacomo diviene per Giada un universo da esplorare ma anche un nuovo fulcro attorno al quale far girare il suo piccolo cosmo africano. Giacomo è la scoperta del sesso, Giacomo è le uscite di caccia in Jeep, Giacomo è le serate con coloni facoltosi in ville con l’aria condizionata. Giada diviene anche madre ma Giacomo dimostra presto di non saper essere né un buon marito né un gran padre.
Giada ed Adi sono le due anime de “La grande A”. Il fascino di Adele è indiscutibile: vive liberamente ed indomita durante un periodo storico in cui alle donne era riservato un ruolo piuttosto marginale o subalterno. Adi è una roccia. Intraprendente, feroce, intrepida. Difficile per una figlia come Giada, o per chiunque altro, interfacciarsi con una persona del genere. Al cospetto di Adele si può solo acconsentire e cedere. Ritratti al femminile che divengono la forza dell’intero romanzo al quale, forse, potrebbe essere rimproverata soltanto una certa prolissità. A mio avviso alcuni inserti o alcune digressioni avrebbero potuto serenamente essere tagliati: l’economia della storia ne avrebbe guadagnato e anche il procedere della lettura. Miriadi di dettagli e un’abbondanza fin troppo generosa di descrizioni appesantiscono il percorso del romanzo fino a renderlo dispersivo e leggermente faticoso. Lo stile della Caminito è interessante e, di certo, da addetta ai lavori, conosce perfettamente le migliori modalità scrittorie contemporanee che contemplano immediatezza, frasi brevi ed incisive, uno scroscio di parole che si fanno speditamente immagini.
Edizione esaminata e brevi note
Giulia Caminito è nata nel 1988 a Roma. E’ laureata in Filosofia politica. Suo padre è originario di Asmara, sua nonna e suo nonno si sono conosciuti ad Assab. Giulia vive nel quartiere Testaccio e lavora per una casa editrice romana. “La Grande A” è il suo primo romanzo.
Giulia Caminito, “La grande A“, Giunti Editori, Firenze, 2016.
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