E’ da tempo che ormai il sentire comune tende ad identificare la “Pubblica Amministrazione” con “i fannulloni”. Siccome di fannulloni autentici ce ne sono davvero (ovvero quelli che avrebbero da fare e non fanno, e non tanto quelli che sono privi di mansioni a causa di inquadramenti irrazionali), pochi o molti che siano, la campagna mediatica del ministro Brunetta ha dato i suoi frutti rinfocolando mai sopiti rancori verso una categoria di lavoratori ritenuta non a torto privilegiata. Ovviamente non tutti la pensano così, in primis coloro che nel pubblico ci lavorano davvero vivendo tutti i disagi di un’organizzazione condizionata da una politica incapace e da discutibilissime e ricorrenti riforme legislative; per non parlare di una burocrazia apparentemente senza senso che da un lato riduce risorse, incentivi e dall’altro persiste nel produrre sprechi di beni e servizi. Sempre nella considerazione che non è molto corretto parlare in generale di “pubblica amministrazione italiana”, non fosse altro che nel nostro Paese coesistono realtà molto diverse: una minoranza di enti che realmente funzionano, diretti da persone competenti, i pochi o molti che lavorano per chi non fa nulla, ed altri che si arrabattano tra mille difficoltà a contatto con cittadini ai quali non si riesce o non si vuole fornire un servizio decente.
Fatta questa premessa veniamo al libro di Aldo Aledda che, con un linguaggio comprensibile anche ai non addetti ai lavori, si propone di evidenziare le ragioni per cui la pubblica amministrazione italiana funzioni in questo modo così schizofrenico. L’autore, grazie alla sua esperienza di dirigente, fa riferimento innanzitutto alla Regione Sardegna, quale paradigma dell’Italia intera. Da qui la sua tesi di fondo: “la pubblica amministrazione (soprattutto nel decentramento regionale) è figlia della politica e di questa porta tutti i pregi e i difetti e non si può pensare di cambiarla in profondità se non si modificano comportamenti e prassi burocratiche” (pag. 9). Volendo quindi dimostrare che “i problemi che afferiscono le amministrazioni pubbliche sono complessi e gli approcci devono essere multidisciplinari” (pag. 518). E difatti: “La convinzione che la pubblica amministrazione possa funzionare solo a forza di leggi e la conseguente sottovalutazione dei problemi organizzativi e, soprattutto, di quelli psicologici ha fatto in modo che interi comparti del pubblico impiego si trasformassero in gigantesche gabbie nelle quali sembrano agitarsi, impigliati tra lecci e lacciuoli legali, gli impiegati pubblici, che così trasmette questo loro modo di essere anche agli utenti con cui avevano a che fare. Da qui appunto la sensazione che danno questo tipo di organizzazioni all’esterno di essere gabbia, sia pure in qualche modo dorate. O delle società totali” (pag. 367). Aledda peraltro aggiunge che la fama imperitura di fannulloni che accompagna i dipendenti pubblici (nella specie si riferisce a quelli della Regione Sardegna) in qualche modo discende anche dalla scarsa visibilità della loro attività, che, a sua volta, è conseguenza della scarsa visibilità dell’istituzione sul territorio. Se in “Interna corporis” leggiamo di molte vicende, spesso vissute personalmente dall’autore, dove l’aneddoto, l’ingerenza politica e le furbate dei funzionari e dirigenti diventano anch’essi paradigma di qualcosa di molto più ampio, nello stesso tempo tutto è poi ricondotto alle analisi dei classici del pensiero organizzativo, di sociologi e di psicologi sociali. Tanto per fare un esempio viene menzionata più volte, e non per caso, la cosiddetta “legge di Peter”, enunciata da Lawrence J. Peter nel 1969 e che afferma sostanzialmente come in un’organizzazione meritocratica ciascuno viene promosso fino a che non raggiunge il suo livello massimo di incompetenza; per cui “se uno sa fare bene una cosa la si sposta a farne un’altra. Il processo continua così all’infinito fino a quando non si arriva al massimo livello di ciò che non si sa fare e generalmente lì si rimane” (pag. 312).
Aledda non si perde troppo a contestare la cosiddetta riforma Brunetta, che pure ammette essere stata più che altro una trovata mediatica; anzi in qualche modo, questa volta forse con un discutibile ottimismo, pare apprezzarne un particolare aspetto: “Ad onor del vero, un passo in avanti [ndr: in riferimento all’appiattimento delle cosiddette performances] in Italia si è fatto restringendo leggermente la porta attraverso la quale può passare un minor numero di vincitori (25% soltanto potranno essere i primi della classe, 50% la massa e solo il 25% di bocciati) stabilendo saggiamente che il giudizio sul rendimento ha una portata temporanea e non si riferisce alla capacità generali dell’impiegato o del dirigente, ma solo alla sua prestazione in quel determinato momento” (pag. 379). In realtà ci sarebbe stato da aggiungere che la prima versione della legge portata in consiglio dei ministri, e condivisa col progressista Ichino, era tale da permettere, dopo tre anni, un surretizzio licenziamento dell’impiegato in balia del giudizio di un dirigente che poteva tranquillamente dedicarsi ad attività ricattatorie. In pratica si sarebbe passati da un’illogica inamovibilità al far west ben conosciuto in ambito privatistico. Per non parlare della rigidità del sistema 25%-50%-25% che in presenza di personale in gamba e volenteroso, ben oltre il 25%, e parimenti di personale fannullone, ben oltre il 25%, avrebbe spesso portato ad un incremento di contestazioni e di demotivazione piuttosto che ad un incremento di motivazione.
In fondo è lo stesso Aledda che prende atto di come certe riforme tanto sbandierate, e parimenti tante direttive, siano delle bufale: “Per altro verso va onestamente osservato che le teste d’uomo delle strutture di studio e di programmazione non sono sottoposte alla stessa pressione di chi deve fronteggiare i problemi che emergono nella quotidianità con tutto il loro carico di contraddizioni e di complessità, per cui se per ipotesi fossero interpellati su come comportarsi davanti ad un caso concreto difficilmente troverebbero una risposta più giusta dei colleghi che tutti i giorni vivono il marasma quotidiano” (pag. 415).
Fin qui ho riportato alcuni passaggi definibili di buon senso e comprensibili anche da chi proprio fosse al di fuori dal mondo della pubblica amministrazione. Ma, come anticipato, il libro di Aledda contiene citazioni di scienziati sociali ed analisi tali da renderlo tutt’altro che banale.
In rete, tra l’altro, abbiamo scovato un’intervista all’autore che, a fronte della domanda sui motivi per cui in Italia si governa male, ci dice molto del significato del suo “Interna corporis”: “Fintanto che le riforme sono conseguenza del braccio di ferro tra amministrazione e forze sociali e che i disegni organizzativi sono tratteggiati da parlamentari distratti o poco interessati affiancati da consulenti e professori che vivono fuori del sistema amministrativo, il risultati saranno sempre superficiali e di facciata; oppure propagandistici, come furono di quel ministro che si prefiggeva di acchiappare immaginari “fannulloni”, nulla comprendendo e non essendo al corrente dei più seri studi di sociologia e psicologia dell’organizzazione che attribuisce solo a incapacità manageriali e a falle del sistema il fatto che tutta una serie di persone non riesca a svolgere adeguatamente il loro compito. Il secondo è il problema etico. Si potrà insistere quanto si vuole sull’ammodernamento dell’amministrazione, si potranno inventare le pene più severe per chi scantona, ma se non si afferma un’etica nel lavoro pubblico, basarsi solo sulle retribuzioni e sulla meritocrazia non risolve il problema del buon funzionamento”.
Un problema innanzitutto etico ma anche causato dalla sottovalutazione delle responsabilità manageriali. Aledda, ad esempio, ricorda come spesso i dirigenti siano selezionati solo sulla base delle conoscenze giuridiche, peraltro oggi necessarie per fronteggiare una normativa sempre più cervellotica e sovrabbondante (alla faccia della tanto decantata semplificazione legislativa), senza però che vengano prese in considerazione altre doti dei candidati, tipo appunto le capacità manageriali; e come di fatto molti dirigenti vincano i concorsi, magari con una spintarella, dopo essere stati funzionari ma poi mantengano nel nuovo ruolo la stessa mentalità di capo sezione. Non è un caso quindi – e questo lo aggiungo io – che in Italia la maggior parte dei dirigenti abbiano una formazione giuridica, mentre negli altri paesi occidentali per lo più si trovino ingegneri e professionisti con alle spalle studi organizzativi. Molti di noi l’avevano già capito, anche in virtù di proprie esperienze professionali all’interno dell’amministrazione pubblica: per rimettere in sesto certi carrozzoni ci vuole ben altro che la crociata antifannulloni di Brunetta. Anzi il rischio poi è che semplificando la faccenda con la caccia ai pur numerosi perditempo presenti negli enti (spesso assunti grazie ad infornate clientelari), magari per condizionare un’opinione pubblica facile ad infiammarsi, si perda di vista tutto il resto, a cominciare dalla voluta ignoranza dei legislatori e della parte politica; e che così si permetta il perpetuarsi dell’attuale spreco di beni e risorse umane.
Edizione esaminata e brevi note
Aldo Aledda, saggista e ricercatore. Già dirigente pubblico, con alle spalle esperienze manageriali nel campo dello sport, dello spettacolo e della cultura, pubblicista e docente universitario, ha pubblicato diversi libri soprattutto in materia di storia e sociologia dello sport, di flussi migratori e uno sulla pubblica amministrazione (La sfinge di carta, 1994). Si ricordano I sardi nel mondo (1991); De Coubertin, Addio! (1998); I cattolici e la rinascita dello sport in Italia (1998, Targa premio “Bancarella Sport”); Vincere è tutto. Sport in USA dal Big Game al Big Business (2000, finalista premio “Bancarella Sport”, 2° premio letterario CONI); Sport. Storia politica e sociale (2002, finalista premio “Bancarella Sport” e 1° premio letterario CONI; The Primacy of Ethics. Also in Sport? (2011) e il romanzo storico Donne d’assalto (2010).
Aldo Aledda, “Interna corporis. Anatomia di una pubblica amministrazione”, Europa Edizioni (Collana Fare Mondi), Roma 2013, pag. 545
Luca Menichetti. Lankelot, gennaio 2014
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