A distanza anni, da quel luglio 1982 nel quale venne rinvenuto il “Piano di rinascita democratica” di Licio Gelli, l’idea che la P2 sia stata qualcosa di innocuo o, nella peggiore delle ipotesi, una semplice buffonata, ha sempre più preso piede. Del resto sappiamo in che mani è l’informazione italiana e quindi c’è poco da stupirsi. Preso atto che anche i più recenti tentativi di condizionamento delle istituzioni repubblicane – ci riferiamo alle inchieste sulle P3 e P4 – spesso sono stati minimizzati sbrigativamente, da parte di certa stampa, ad abbagli di giustizialisti invasati, non ci farà male ricordare cosa ha significato la scoperta degli archivi di Castiglion Fibocchi. Potrebbe risultare utile la lettura di qualche libro capace di inquadrare storicamente la vicenda, tipo quelli di Giuliano Turone e Mario Guarino. E poi magari proprio “Loggia P2. Il piano e le sue regole”, saggio curato da Giuseppe Amari e Anna Vinci. Il libro, edito dalla Castelvecchi, è difatti una raccolta di brevi saggi di accademici ed esperti come Tullio De Mauro (La corrotta italianità del linguaggio piduistico”), Giovanna Leone (“La P2 e la semantica dei contrari”), Alessandro Roncaglia (“L’economia della P2), Luigi Mariucci (“Il piano Gelli, il lavoro e il sindacato”), Francesco Maria Biscione, Michele Prospero (“Il meta partito della slealtà costituzionale”), con introduzione di Giuliano Turone (“Il contesto e la teorizzazione del golpe strisciante”) e un’appendice con una testimonianza di Tina Anselmi. Scritti che, con stile a cavallo tra giornalismo e accademia, prospettano un quadro tutt’altro che rassicurante; con buona pace di coloro che hanno dipinto i piduisti come una combriccola di ingenui e innocui professionisti. “Loggia P2” è nel contempo un esame critico del programma di Gelli, vuoi dal lato sintattico, vuoi semantico, vuoi in merito ai contenuti economici; e soprattutto un esame che intende svelare la vera sostanza del “Piano di rinascita democratica”, i suoi obiettivi di breve, medio, lungo termine. Queste le parole di Tina Anselmi nel presentare i lavori della Commissione (1986): “possiamo trarre una conclusione di significato politico rilevante: la politica sommersa vive e prospera contro la politica ufficiale; che una democrazia manipolata è una non democrazia; che ogni tentativo di correggere surrettiziamente e per vie traverse il sistema democratico significa in realtà negarlo alla radice dei suoi valori costitutivi” (pag. 10). Una democrazia sicuramente molto alla Gelli, non fosse altro che, con linguaggio involuto e di basso livello, si parla di “partiti politici da controllare” attraverso “uomini di buona fede”, di “sollecitazioni possibili sul piano della manovra di tipo economico-finanziario”, di controllo della stampa mediante giornalisti “acquisiti”. Ed inoltre, come sottolinea Giovanna Leone con “la semantica dei contrari”, balza agli occhi come il Piano parli “pochissimo della gente comune e per niente della sua partecipazione democratica alla costruzione dell’Italia” (pag.67). Soprattutto, e al di là di tutte quelle parole “corrotte” che De Mauro ha ottimamente analizzato, la terribile attualità della vicenda P2 sta nei suoi fini, evidentemente mai venuti meno. Non certo nella volontà di fare un golpe classico, con colonnelli armi in mano, ma nello svuotare la sostanza della democrazia.
Così Michele Prospero: “Controllare il potere per le soddisfazioni che garantisce, e quindi senza disperderlo nella sterile discussione aperta dinanzi alla sfera pubblica, era il sogno. Stare radicati nell’epicentro del potere e però senza scendere troppo in basso con inutili esibizioni muscolari: questo era il succo politico del Piano di rinascita democratica […] era il condensato di una lunga e per certi versi inesauribile ideologia italiana che si gratificava della competenza dei tecnici da scagliare contro il chiacchiericcio vano dei politici” (pag. 98-102). Non deve affatto sorprendere che molti dei punti del Piano siano ancora all’ordine del giorno: la previsione di due soli partiti, il controllo dei media e della magistratura, la riduzione del numero dei parlamentari, l’abolizione delle Province e della validità legale dei titoli di studio. Molti presunti democratici e riformisti, teoricamente lontani anni luce dalla cultura di Gelli e compagnia, hanno assunto come necessari e positivi per risanare l’Italia ad esempio proprio l’abolizione delle Province, la riduzione dei parlamentari e la prospettiva di soli due partiti. All’atto pratico però le cose cambiano e si nota una sorprendente somiglianza con gli intenti piduisti. Non c’è necessità di tirare di nuovo in ballo cospirazioni, la notissima tessera 1816 appartenente ad un pregiudicato che è diventato padre costituente (e per questo possiamo ringraziare il premier di Rignano che tanto ha imparato dall’anziano predecessore), ed altri piduisti sparsi e felicemente riciclati come classe dirigente. Basta rilevare come ancora una volta il lessico propalato dai media e dai politici più spregiudicati non corrisponda alla sostanza delle cose. Nel “Piano” si prospettava un sistema per esautorare l’elettorato della sua funzione e nel contempo si citava continuamente la parola “democrazia”. Adesso, guarda caso, mettendo in ballo sempre l’efficientismo e il cosiddetto riformismo, si dice che vengono abolite le Province ma in realtà si eliminano soltanto le elezioni provinciali. I senatori non saranno più eletti dai cittadini ma nominati dai partiti. E non è finita qui. Con buona pace di chi pretendeva tempi rapidi per una legge sui conflitti d’interesse (idea subito archiviata per non scontentare alleati politici neppure troppo occulti), priorità assoluta è diventata una legge elettorale costruita appositamente per favorire da un lato la sopravvivenza politica e finanziaria di un ex premier e dei suoi scherani, e dall’altro il mantenimento al potere di un rottamatore fasullo.
Da questi assaggi di riformismo farlocco, tale da portarci dritti dritti ad abbracciare un sistema sudamericano (Berlusconi da solo non ce l’ha fatta, dovevamo aspettare l’arrivo di un suo allievo sempre ben supportato dal vecchio maestro), e senza ipotizzare affiliazioni occulte (gli interessi sono evidenti come altrettanto evidenti sono le balle che vengono dispensate dai media compiacenti), possiamo ben comprendere come molti dei nostri politici non si facciano scrupoli di svuotare di sostanza la parola democrazia. Gli strumenti, seppur aggiornati alle novità tecnologiche, sono sempre quelli citati nel “Piano”: uso spregiudicato dei media nei confronti di un elettorato facilmente condizionabile, tentativi ripetuti di mettere la mordacchia alla magistratura inquirente e giudicante, la volontà di addomesticare la Corte Costituzionale, l’intento di mettere in sordina i conflitti d’interesse, innumerevoli sia a destra che a sinistra; e via delinquendo. In compenso non ci facciamo mancare l’uso ripetuto e propagandistico di parole come “efficienza”, “governo dei migliori”, “lotta spietata alla burocrazia”: quello che in sostanza l’elettorato, ormai esautorato del suo potere decisionale, vuol sentirsi dire. Gelli, anche se felicissimo dell’andazzo, probabilmente non ha più voce in capitolo e molti suoi affiliati, una volta imparata la lezione, se la sono sbrigata da soli senza bisogno di imbastire logge segrete. Adesso basta che i capi di due partiti, un non eletto e un non eleggibile, si incontrino da soli, senza che si sappia cosa si sono detti, per stringere un patto di ferro che cambi la Costituzione, la legge elettorale e che metta in archivio leggi come quella sul conflitto d’interesse e chissà cos’altro. Le analisi presenti nel libro curato da Giuseppe Amari e Anna Vinci vanno quindi lette non soltanto in relazione al tempo passato e in particolare agli anni tra il 1981 e il 1982: già da tempo avevamo capito che gran parte di quella mentalità presente nel “Piano”, anche se probabilmente derubricata ad uso spregiudicato del potere e a dar sfogo a sfrenate ambizioni personali, è tutt’ora presente e intenta a far danni.
Edizione esaminata e brevi note
Giuseppe Amari, laureato in Economia alla scuola di Caffè presso l’Università «La Sapienza», ha svolto attività sindacale nel ramo del credito e lavorato in diversi istituti bancari. Ha pubblicato numerosi volumi sulla figura di Federico Caffè. Cura il catalogo informatizzato delle opere dell’economista presso il dipartimento di Diritto ed Economia de «La Sapienza». Tra le sue ultime pubblicazioni “In difesa dello Stato al servizio del Paese, labattaglia di Giorgio Ambrosoli, Paolo Baffi, Silvio Novembre,Mario Sarcinelli e di Tina Anselmi” (2010) e, insieme ad Anna Vinci, “Le notti della democrazia, Tina Anselmi eAung San Suu Kyi, due donne per la libertà” (2012), entrambe per la Ediesse, nella collana «Gli Erasmiani» da lui ideata. Attualmente collabora con la Fondazione Giuseppe Di Vittorio.
Anna Vinci, è nata a Roma dove vive e lavora. Scrittrice, regista e conduttrice, ha lavorato alla radio in programmi di informazione e in televisione per trasmissione come I migliori anni della nostra vita e Facondo. Fra i suoi romanzi: “L’usuraia” (Edizioni Associate, 1996) e “Restituta del porto” (Voland, 2002). Fra i suoi saggi: “La Politica con il cuore”, con Stefania Pezzopane, (Castelvecchi, 2010), “La P2 nei diari segreti di Tina Anselmi” (chiarelettere, 2011), “La Mafia non lascia tempo” (Rizzoli, 2013).
Giuseppe Amari, Anna Vinci, “Loggia P2. Il Piano e le sue regole”, Castelvecchi (collana Pamphlet), Roma 2014, pp. 128. Introduzione di Giuliano Turone.
Luca Menichetti. Lankelot, giugno 2014
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