E’ lo stesso commissario Van In a ricordarci, circa a metà della narrazione, l’origine, o almeno l’apparente origine, di una vicenda criminale altrimenti piuttosto complicata: “Gli avvenimenti ballavano come marionette davanti ai suoi occhi. Un ricco broker è vittima di un tentato omicidio. Uno sconosciuto lo colpisce con una pistola antica. Sul calcio della pistola ci sono le impronte di un ricettatore. Il ricettatore viene trovato morto nel suo appartamento, meno di quarantotto ore dopo. Colpito da un’arma da fuoco. La moglie del broker scompare. Hannelore scompare. L’unico sospettato è un detenuto rilasciato le cui orme sono state rinvenute nell’appartamento del ricettatore e, secondo il barista di un losco club per scambisti, un noto scrittore di gialli fiammingo non disdegna la merce rubata” (pp.186). Poche righe che non rappresentano affatto uno spoiler perché l’indagine del commissario e del suo fedele brigadiere Versavel avrà a che fare anche con politici corrotti, con l’uscita di scena dello scrittore Asselberghs e con un pericoloso mafioso georgiano travestito da impeccabile uomo d’affari. Il romanzo, pubblicato per la prima volta nel 1999 e presto trasformato in una sceneggiatura televisiva per la serie “Aspe” (inedita in Italia), pare non abbia riscosso lo stesso successo di critica di altre opere con protagonista il commissario Van In: è plausibile che i tanti personaggi e l’intrecciarsi di trame e sottotrame abbiano deluso in particolare chi predilige uno svolgimento ed un epilogo lineare e immediatamente comprensibile. In realtà nel campo della narrativa poliziesca si sono lette pagine con vicende molto più complesse, tanto da far pensare che lo stesso autore non avesse ben chiaro dove andare a parare. Possiamo parlare di un romanzo con elementi noir e mistery, un’onesta opera d’intrattenimento che, malgrado un’indagine intricata, probabilmente non deluderà più di tanto coloro che hanno già letto “Maschere nella notte” o “Sangue blu”. Una critica fondata semmai potrebbe essere fatta alla stessa critica; almeno a quella che si occupa professionalmente di divulgare la letteratura di genere, poliziesca e noir. Nel caso specifico del “Caso Dreyse” ci è sembrata non proprio puntuale la presentazione di Pieter Aspe come “Il Simenon fiammingo” (Le Figaro), oppure, come da quarta di copertina, del commissario Van In “un po’ Maigret, un po’ Poirot” che oltretutto “ha più di qualcosa in comune col tenente Colombo” (Il Messaggero).
In realtà, se non fosse per la nazionalità belga, non si vedono grandi affinità tra il bisbetico Van In, oltretutto fiammingo, e il vanitoso e pignolo Hercule Poirot; oppure col tenente Colombo, trasandato, misurato e implacabile, quanto il personaggio di Pieter Aspe è un intemperante di natura, anche con le donne, smodato tabagista, accanito bevitore di Duvel: “I colleghi avevano proprio ragione quando sostenevano che Van In fosse imprevedibile come il tempo” (pp.220). Il commissario della polizia di Bruges inoltre ha in comune con Maigret la professione, il fatto che Aspe e Simenon siano ambedue belgi – il primo di nazionalità fiamminga, il secondo francofono -, una certa attenzione alle vicende umane di coloro che sono implicati nelle vicende giudiziarie; ma è evidente che, nei romanzi di Aspe, la trama in quanto tale ancora rappresenta l’elemento predominante. Inoltre i rapporti umani che fanno da sfondo alle indagini di Van In appaiono meno condizionati dai pregiudizi (si veda la figura di Versavel) e a volte più spregiudicati (si veda il rapporto altalenante tra il commissario e sua moglie, ormai in carriera). Ne consegue che, messi da parte i vari mostri sacri del poliziesco classico, personaggio in parte affine al nostro commissario – in presenza oltretutto della figura imprescindibile di Hannelore – potrà risultare il meno noto Brady Coyne (creato da William G. Tapply), sensibile all’altro sesso, gran bevitore e gran fumatore. Comunque sia son tutti confronti che lasciano il tempo che trovano, utili soltanto per rimarcare la peculiarità di un commissario fiammingo, tanto intemperante quanto consacrato alla sua missione di poliziotto alle soglie del terzo millennio. Un’attualità che però non va equivocata. Pieter Aspe in una recente intervista al Corriere ha affermato che nei suoi libri sono spesso presenti vicende legate all’integralismo islamico; pure nel “Caso Dreyse”. La verità è che in un romanzo pubblicato per la prima volta nel 1999, due anni prima il disastro delle Twin Towers, non troviamo nulla che ci faccia pensare ad una minacciosa Jihād nel cuore dell’Europa. Probabile semmai possa essere oggetto di una prossima indagine del commissario Van In.
Edizione esaminata e brevi note
Pieter Aspe, scrittore belga, è nato a Bruges nel 1953. Ex precettore, fotografo, commerciante di vini, venditore di granaglie e cereali, custode di una basilica, impiegato in un’impresa tessile e lavoratore stagionale per la polizia marittima, ha esordito nel 1995 con “Il quadrato della vendetta”. Nel 2001 ha vinto il premio Hercule Poirot come miglior scrittore fiammingo di gialli. Autore di 35 romanzi, ha venduto in patria oltre 2.000.000 di copie.
Pieter Aspe, “Il caso Dreyse”, Fazi, Roma 2015, pag. 302. Traduzione di Ciro Garofalo.
Luca Menichetti. Lankelot, novembre 2015
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