A poco meno di un anno dalla scomparsa di Carlo Mazzacurati la Marsilio (collana “Elementi”) ha pensato bene di pubblicare una monografia dedicata al regista padovano: il momento forse più opportuno, quel tanto da non far pensare ad una sorta di coccodrillo ed operazione commerciale; ed abbastanza da consentire una rilettura meditata delle opere cinematografiche di Mazzacurati. Pur senza aver dimenticato le origini e la formazione del regista, il libro è innanzitutto un lavoro di analisi e d’interpretazione di una filmografia che, al netto di “Vagabondi” (1979), parte da “Notte italiana” e, passando per i ritratti e i documentari, arriva a “La sedia della felicità”. Curatore, autore dell’introduzione e del capitolo dedicato a “Il prete bello” è Antonio Costa, che ha avuto il compito di coordinare un gruppo di dodici accademici, a ciascuno dei quali è stato affidato un capitolo e un film: “Notte italiana” (Rosamaria Salvatore), “Il prete bello” (Antonio Costa), “Un’altra vita” (Alessandro Faccioli), “Il toro” (Manlio Piva), “Vesna va veloce” (Chiara Tartarini), “L’estate di Davide” (Alberto Scandola), “La lingua del santo” (Luciano Morbiato), “A cavallo della tigre” (Denis Lotti), “L’amore ritrovato” (Farah Polato), “La giusta distanza” (Giorgio Tinazzi), “La passione” (Cristina Jandelli), “La sedia della felicità” (Giulia Lavarone), “Ritratti e documentari” (Denis Brotto).
Parliamo infatti di analisi e, come si conviene ad uno studio caratterizzato da linguaggio accademico, “Carlo Mazzacurati” non ha nulla a che vedere con una raccolta di recensioni giornalistiche o a qualcosa tipo strenna della Taschen. Sono le recensioni semmai ad essere citate per raccontare la fortuna critica del film, mentre la trama viene appena suggerita, spesso data per conosciuta, e concorre ad un’analisi incentrata per lo più sul rapporto tra poetica cinematografica e la tecnica di regia, movimenti di macchina compresi. Il ritratto che ne scaturisce conferma quello che già pensavamo dell’opera Mazzacurati, ma nel contempo approfondisce elementi fino ad ora forse sottovalutati. Lo stesso “Prete bello”, uno dei film più bistrattati dalla critica del tempo, anche a causa della diversità di trama rispetto al romanzo (sappiamo che il regista scelse di lasciare il prete sullo sfondo e volle privilegiare i temi dell’adolescenza), viene letto da Antonio Costa in maniera molto più positiva: “Mazzacurati è entrato nel romanzo di Parise come si trattasse di un territorio e ha deciso di riprendere e porre in primo piano solo determinati luoghi, dettagli e personaggi, lasciando il resto sullo sfondo. Lo spettatore può presupporre che il territorio, lo sfondo, sia più complesso di quanto il film non mostri” (pag. 34).
Lo stesso Costa legge l’opera di Mazzacurati, frutto positivo della stagione dei “filmstudio”, come chiaro esempio di “giusta distanza” (proprio come il titolo di uno dei suoi più noti film), citando Serge Daney: “Chi guarda – dichiara Daney – deve mettersi ad una certa distanza, ma chi mantiene troppo la distanza corre de rischi: la freddezza o il manierismo. La soluzione viene dalla certezza che ci deve essere una distanza (una sola) a partire dalla quale ogni cosa (uomini e paesaggi) non appare solo come stranamente distanziata ma come la promessa affettuosa di un segreto” […] Ecco la giusta distanza: è quella a partire dalla quale ci sarebbe possibile volere, allo stesso tempo, svelare il segreto e lascialo intatto. Questo “allo stesso tempo” è il tempo stesso dell’emozione” (pag. 18). Così il peculiare sguardo “alla giusta distanza” di Mazzacurati, fin dal suo primissimo “Vagabondi”.
E’ chiaro che poi, di film in film, la monografia svela molto altro del regista padovano. Ad esempio le contaminazioni emotive tra luoghi persone, quelle che Chiara Tartarini chiama “geografia umana” (pensiamo anche alla trilogia veneta del Delta del Po’); oppure il “cinema di transizioni”, secondo Alessandro Faccioli, “votato al racconto di abbandoni, rincorse, pedinamenti di personaggi invischiati in storie centrifughe” (pag. 44); Mazzacurati quale “campione della messa in scena dell’amicizia virile, se pensiamo a “Il prete bello”, “Il toro”, “La lingua del Santo”, così come la fuga è un topos del suo cinema” (pag. 102); da un lato“la fascinazione del regista per l’Est europeo e la sua produzione culturale” e “la propensione verso il picaresco, mediata da certa commedia all’italiana” (pag. 129). Tutto sempre nella considerazione che il cinema di Mazzacurati è innanzitutto narrativo, al di là di pause volute, “dirottamenti e tempi morti”. Interventi che, di capitolo in capitolo, delineano la figura di un regista che è riuscito a coniugare la commedia italiana con una “poetica d’autore”, a raccontarci i mutamenti sociali del Nord-Est e a conciliare efficacemente “i modelli del grande cinema, americano e italiano”.
Edizione esaminata e brevi note
Antonio Costa, insegna cinema alla Facoltà di Design e Arti di Venezia. Tra i suoi libri più recenti, Il cinema e le arti visive (Einaudi 2002) e Federico Fellini. La dolce vita (Lindau 2010). Per Marsilio ha curato: Ingmar Bergman (2009), le edizioni italiane di L’organizzazione dello spazio nel «Faust» di Murnau di Rohmer (20043) e L’arte del film di Vachel Lindsay (2008).
“Carlo Mazzacurati”, Marsilio (collana “Elementi”), Venezia 2015, pp. 175. A cura di Antonio Costa.
Luca Menichetti. Lankelot, gennaio 2015
Follow Us