L’avevo intuito: dietro a “Memorie di un porcospino” c’è Pezzi di vetro. Stesso profluvio di parole, stessa assenza di interpunzione, stessa ironia e stesso dissacrante gusto per il grottesco. Per chi non lo sapesse, Pezzi di vetro è il protagonista del romanzo che ha dato grande notorietà ad Alain Mabanckou. Lumaca testarda, esecutore del testamento letterario di Pezzi di vetro nonché gestore del bar Credito a morte, al termine della lettura ci spiega che “Memorie di un porcospino” altro non è che un’opera postuma dell’ormai annegato Pezzi di vetro il cui manoscritto è stato rinvenuto dal cameriere Mompéro in una macchia d’alberi. Lumaca testarda chiarisce quindi che con questo suo scritto “Pezzi di vetro ha voluto abbozzare un’allegoria delle sue ultime volontà. Per lui il mondo è soltanto la versione approssimativa di una favola che non saremo mai in grado di afferrare fin quando continueremo a prendere in considerazione soltanto la rappresentazione materiale delle cose“.
In “Memorie di un porcospino” il buon Pezzi di vetro si eclissa totalmente e lascia la parola ad un’altra voce narrante, quella del porcospino. Un animale decisamente particolare che ci spiega ogni dettaglio della sua bizzarra e per certi versi inquietante vicenda. All’origine c’è una leggenda africana secondo la quale ogni essere umano ha un “doppio” nel mondo animale. Ci sono i “doppi pacifici” che, proprio come gli angeli custodi di cattolica memoria, nascono con l’umano che avranno il compito di seguire e proteggere per tutto il corso della sua esistenza. E poi ci sono i “doppi nocivi”, i più rari ma anche i più temibili perché devono assecondare esseri umani che, dopo l’incarnazione animale, “non si lasciano più abitare da sentimenti come la pietà, la compassione, il rimorso, la misericordia, si mettono a scherzare con l’oscurità…“. E il nostro porcospino diviene il “doppio nocivo” di Kibandi, iniziato da suo padre all’età di dieci anni e all’insaputa di tutti dopo essere stato indotto a bere la bevanda iniziatica detta mayamvumbi.
Sappiamo subito che Kibandi è morto. Ce lo spiega il porcospino fin dal principio del suo racconto. Un racconto che l’animaletto, sbigottito e stravolto, fa a noi che leggiamo ma anche al grande baobab accanto al quale si è rifugiato. Il baobab diviene testimone ed ascoltatore silente delle confessioni del porcospino che, pagina dopo pagina, ci mette al corrente delle nefandezze che, come “doppio nocivo” di Kibandi, è stato costretto a compiere. Una confessione che in molti momenti diviene un’ammissione di colpa ma anche automatica e semplicissima auto-assoluzione. Come poteva il porcospino non assecondare diligentemente le volontà del suo “padrone” umano anche quando questi pretendeva atti di estrema crudeltà? Era suo compito eseguire ogni ordine anche se, alla fine dei giochi, l’uomo e il porcospino sono divenuti gli artefici della morte di decine e decine di persone. Kibandi invidia, odia, recrimina, disprezza e il porcospino, proprio come un sicario, si occupa di eliminare tutti quegli individui che provocano l’invidia, l’odio, le recriminazioni e il disprezzo di Kibandi. E basta davvero poco perché Kibandi decida di liberarsi di chi lo ha guardato storto o di chi lo ha preso in giro o di chi non lo ha salutato come avrebbe dovuto.
La favola africana del porcospino troppo umano o dell’uomo troppo bestia, quindi, diviene un modo per descrivere i piccoli, indecifrabili abomini che albergano nell’animo di ogni individuo. Il ricorso al “doppio” non è una novità nel mondo della letteratura e, qui come altrove, ci fa soffermare sul concetto degli alter ego che consente ai romanzieri, e non solo, di muoversi nel fumoso dominio dei lati oscuri, degli aspetti maligni e dei desideri più perfidi e inconfessabili della coscienza umana. Fortunatamente “Memorie di un porcospino” ha il potere di esplorare certi territori in maniera piuttosto divertente ed ironica lasciando al porcospino narrante il compito di compiere illuminanti e logorroiche digressioni sul genere umano per il quale, evidentemente, l’ispido animaletto non prova grande stima né particolare considerazione.
Edizione esaminata e brevi note
Alain Mabanckou è nato a Pointe-Noire, in Congo, nel 1966. Ha studiato Diritto presso l’Università di Brazzaville per poi continuare in Francia a partire dal 1989. Pubblica il suo primo romanzo nel 1998 che gli vale il “Gran prix littéraire del l’Afrique noire”. Da questo momento in poi la sua attività preminente è e rimane quella di scrittore. La sua consacrazione arriva nel 2005 con il romanzo “Verre cassé”, “Pezzi di vetro”, grazie al quale conquista l’attenzione e le lodi della critica di mezzo mondo. Negli anni sono giunti ad Alain Mabanckou numerosi riconoscimenti letterari per le sue opere. Attualmente lo scrittore della Repubblica del Congo vive a Los Angeles ed insegna letteratura francofona alla Ucla, l’Università della California.
Alain Mabanckou, “Memorie di un porcospino”, 66thand2nd, Roma, 2017. Traduzione dal francese di Daniele Petruccioli. Titolo originale “Mémoires de porc-épic”, Édition du Seuil, 2006.
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