Non so proprio come si possa definire l’attitudine così tanto frequente di credere a qualcosa senza capirne le ragioni, ovvero essere d’accordo, magari con una politica, senza rispondere ad una sola domanda: perché? Non lo so e non credo sia essenziale adesso trovare le parole adatte, non fosse altro che si rischierebbe di risultare ingenerosi nei confronti di tante persone in buona fede che, credendo di informarsi, sono semplicemente vittime di un “pregiudizio di razionalità”.
Di questo ci parla il volume di Antonio Calafati “Dove sono le ragioni del si”, che, nell’analizzare gli articoli dei maggiori quotidiani sulla Tav in Val di Susa, ci presenta un’attenta critica al sistema dell’informazione in Italia. Le pagine del libro prendono spunto da un corso di “Analisi della politiche pubbliche” tenuto da Calafati: professore e studenti hanno letto i maggiori quotidiani nazionali per cercare, anche solo abbozzato o con grande approssimazione, qualcosa tra interviste, cronache, editoriali che spiegasse le ragioni del si alla Tav in Val di Susa. Ovviamente cercavano ragioni un minimo argomentate e basate su dati oggetti e dimostrati.
C’è da credere che il sincero sconcerto di professore e studenti nel non trovare proprio nulla che assomigliasse a un’autentica informazione sia stata la molla per pubblicare il risultato della ricerca. Un’analisi che nello specifico ha riguardato la tratta Tav Lione-Torino ma che si può applicare perfettamente ad altre vicende, peraltro paradossali nella cosiddetta “società della conoscenza”, che vedono implicati politici furbastri e imprenditori amici intenti a sponsorizzare grandi opere pubbliche e un’informazione che non informa.
Penso a qualcosa che sto vivendo molto da vicino: i lavori appena iniziati (e inaugurati da allagamenti causati dall’effetto diga sulla falda acquifera cittadina) di un tunnel lungo 7 km sotto Firenze per far passare dei binari Tav. Opera colossale, portata avanti senza controlli reali, in un ambiente geologicamente particolarissimo, con tanto di acque sotterranee che scendono dalle colline, che metterà a serio rischio edifici, monumenti e costerà 10 volte tanto i progetti Tav alternativi e meno devastanti per il territorio, la salute e le casse dello Stato.
Gli stessi comitati contro il sottoattraversamento si guardano bene dall’opporsi alla Tav in quanto tale ma propongono appunto soluzioni alternative e meno costose (in superficie o fuori dal centro cittadino), pretendendo che la cittadinanza sia informata di quello che accade: nessun esercizio degno di black-block ma comportamenti che altrove sarebbero considerati ascrivibili ad un sano esercizio di democrazia liberale.
Quanto capitato in Mugello, e ovviamente poco pubblicizzato, non ha insegnato nulla se non l’escamotage di imbastire opere prive di logica (semmai quella di arricchire imprenditori amici) portando avanti più che mai una disinformazione generale, omettendo, rassicurando senza spiegare, facendo credere che l’opposizione a questi mostri fuorilegge sia opera di assatanati massimalisti con turbe silvo pastorali. Chiunque di voi voglia approfondire la vicenda con animo scevro da pregiudizi potrà invece svelare una realtà ben diversa e molto più triste, fatta di mistificazioni e palesi illegalità. Con buona pace appunto di quei media che ripetono come un mantra poche notizie stitiche, ininfluenti per comprendere come veramente stanno le cose e cosa c’è dietro l’ostinazione a portare avanti delle opere che in qualsiasi altro paese civile, anche tra quelli che sono capofila nel costruire grandi infrastrutture come la Tav, sarebbero state oggetto di una contestazione generale.
In Europa ci sono sicuramente delle situazioni simili alle nostre ma almeno esiste un’informazione che fa il suo dovere e una società civile dotata di anticorpi che sa farsi valere nel frenare gli appetiti dei cementificatori e dei loro sponsor politici. In altri termini anche la civilissima Firenze sta conoscendo il metodo Bertolaso (e Moretti) questa volta applicato in maniera bipartisan col supporto di Rossi e Matteoli in un poco virtuoso inciucio che farà contenti imprenditori amici e cooperative rosse.
Molto meno contenti saranno quei cittadini consapevoli che si ritroveranno una città danneggiata da un’opera inutile, irreversibile e talmente costosa da risultare imbarazzante per i suoi stessi sponsor.
Ripeto: farsi un’idea richiede un certo impegno ma basta andare sui siti dei comitati (formati da semplici cittadini incazzati e informati, di ogni fede politica), ascoltare quando denunciato da decine di urbanisti ed ingegneri indipendenti delle Università, leggere le opere di Ivan Cicconi, di Ferdinando Imposimato, i video presenti su youtube, confrontarlo con quanto riferito dalle cosiddette istituzioni (praticamente nulla), magari proprio recarsi sui luoghi incriminati ed allora la reazione sarà di sconcerto e di spiazzamento di fronte ad un meccanismo che pare non potersi fermare e che, prima di ogni altra considerazione tecnica o giuridica, appare un’offesa al buon senso.
Ho forse divagato, ma credo che il concetto sia chiaro: “Dove sono le ragioni del si” è un bel libro che non deve essere letto soltanto in rapporto alla Val di Susa, situazione peraltro diversa da quella sopra descritta, ma con lo sguardo rivolto all’informazione nazionale, sempre omissiva e inconcludente quando si tratta di approfondire argomenti tecnicamente complessi e quando si tratta di svelare la falsità di tanti luoghi comuni.
Dove sono le ragioni del si?
E’ una domanda, riferita alla Lione-Torino, alla quale però i media non hanno saputo dare una risposta se intesa come razionale analisi delle procedure decisorie su cui questo progetto si fonda.
La lettura dei maggiori quotidiani ha portato alla conclusione che politici e giornalisti sono praticamente tutti a favore delle cosiddette “grandi opere”, ma senza spiegarne le ragioni se non quelle di “dobbiamo essere all’avanguardia, non possiamo permetterci di rimanere indietro” e via dicendo. E poco male se quando riferito non risponde al vero (basterebbe leggersi le delibere UE per rendersene conto) oppure se non si chiariscono razionalmente i motivi di certe affermazioni tranchant. In una democrazia compiuta i cittadini dovrebbero poter interrogare i decisori collettivi, ovvero le istituzioni, anche tramite gli organi di informazione e ricevere delle risposte plausibili, razionali. Invece pare che la priorità sia quella di incentivare i luoghi comuni, sempre eccellenti diversivi, cavarsela con qualche sbrigativa rassicurazione, svicolare dagli obblighi di partecipazione imposti dalla legge ed andare avanti proclamando una verità assoluta senza spiegarne le ragioni, senza mettere il cittadino nelle condizioni di valutare compiutamente la validità di un’opera pubblica. Un gobbetto anni fa scriveva – e lui se ne intendeva – “a pensar male si fa peccato ma quasi sempre ci s’azzecca”. In questi casi ritengo che del “quasi” si possa proprio fare a meno: gli interessi propri di corporazioni e lobby a devastare il più possibile, e a caro prezzo, sono palesi almeno per coloro che non si fanno incantare dalle parole d’ordine di innovazione e progresso, del tutto fuori luogo quando la prima vittima di questi imbrogli è il buon senso.
Quando i comitati e gli osservatori più critici si limitano a pretendere opere meno impattanti per il territorio e meno costose, condotte secondo i crismi della legalità e del rispetto della salute dei cittadini, ma non negano che possano essere fatte, magari con altri progetti più razionali e onesti, non c’è modo di zittirli se non spacciandoli per estremisti ed affogando l’informazione, non sempre piacevole, in un mantra rassicurante ed evanescente.
La lettura del libro di Calafati è innanzitutto un modo per contrastare quel pregiudizio di razionalità che è proprio di tutti noi quando andiamo a leggere i quotidiani: spontaneamente si crede che quanto presente in editoriali ed articoli risponda al vero e le affermazioni dei giornalisti siano espressione di una logica, di loro solide conoscenze, razionali, verificate. E invece: “la lettura di questo editoriale è stata utile, perché ci fa cambiare atteggiamento. Abbiamo capito che nei tra principali quotidiani nazionali possiamo trovare di tutto sul tema della Tav. Di tutto, frasi senza significato, argomentazioni contraddittorie, affermazioni senza fondamento, toni derisori; un trash logico, lessicale, morale. D’altra parte, se era una parodia di giornalismo che si doveva mettere in scena, una parodia si doveva fare e bene” (pag. 44).
E poi ancora: “questa esercitazione non l’abbiamo completata, perché le ragioni del si non le abbiamo trovate […] ma non possiamo fermarci qui, con le nostre borse e zaini pieni di ritagli di giornali, senza nient’altro che questo paradosso di una decisione importante come la Lione-Torino della quale nessuno sa dire perché sia stata presa. Politici e giornalisti non sono in grado di spiegarci queste ragioni perché non sono state elaborate, discusse […] Sul tema della infrastrutture di trasporto, in particolare sui megaprogetti, la società italiana sembra aver perso il controllo del linguaggio, dei modelli di effetti, degli obiettivi” (pag. 72).
Le analisi di Calafati sono quelle di uno studioso di economia urbana e di analisi delle politiche pubbliche, che, nello svelare le mistificazioni e l’irrazionalità di quanto ci è stati riferito sui progetti di opere pubbliche, di fatto alla banda di politici ed editorialisti Bresso, Chiamparino, Bertinotti, Sergio Romano, Panebianco, Giovanni Valentini, Annunziata, non fa un gran favore: la puntuale analisi di cantonate, detti e contraddetti, sparate gratuite e prive di riscontro nella logica e nella realtà, salvo la loro possibile accettazione da parte di lettori con “pregiudizio di razionalità”, è piuttosto sconfortante. Un declino italiano che viene individuato anche dall’incapacità del giornalismo italiano “a fornire un resoconto attendibile, pertinente e fondato degli effetti delle politiche pubbliche. Un giornalismo che ci impedisce di pensare collettivamente”. Fosse semplicemente una questione di destra e di sinistra, di progresso contro conservazione di nostalgici e ottusi ambientalisti, forse ci sarebbe poco da preoccuparsi, avrebbero un senso gli atteggiamenti sbrigativi e rassicuranti dei citati politici e giornalisti.
Non è così e, alla luce del travisamento della realtà e di un’informazione che è il fantasma di se stessa, c’è solo da prendere atto – tristemente – e magari crearsi degli anticorpi proprio con la lettura di opere come quella di Antonio Calafati.
Coerente la chiusa del libro: “Ciò che stiamo costruendo è una società della pseudo-conoscenza – con tutte le conseguenze del caso. Questo sistematico, quotidiano, per quanto involontario, travisamento della realtà ha conseguenze che pagheremo a caro prezzo. Che stiamo già pagando a caro prezzo”.
Edizione esaminata e brevi note
Antonio Calafati dal 2005 è professore associato di Economia applicata presso la Facoltà di Economia Giorgio Fuà. Dal 1990 ha ricoperto diversi incarichi di insegnamento: nell’Università “Friedrich Schiller” di Jena, nella Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, nell’Università di Macerata ed appunto presso la Giorgio Fuà dove adesso insegna Economia urbana e Analisi delle politiche pubbliche. Attualmente sta coordinando una ricerca sulle traiettorie di sviluppo delle città della Terza Italia.
Approfondimento in rete: http://www.antoniocalafati.it/
Antonio G. Calafati, Dove sono le ragioni del sì? La “Tav in Val di Susa” nella società della conoscenza, Torino 2006, Laissez-Passer, Seb27 , pag. 104, €10,00
Luca Menichetti. Lankelot, 30 gennaio 2011
Articolo già pubblicato su ciao.it il 30 gennaio 2011 e qui parzialmente modificato.
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