Raccontare la realtà di una dittatura è sempre difficile. Lo è ancor di più se questa dittatura, da anni, è percorsa da sempre più evidenti espressioni di dissenso e se ancora il regime in questione, tanto delegittimato in patria, riesce invece ad entusiasmare chi vive nelle nostre democrazie occidentali. Significa che l’informazione deve fare i conti con una disinformazione di regime, peraltro molto bene accetta anche da coloro che dalle nostre parti, paradossalmente ma non troppo, si dicono preoccupati di una involuzione della democrazia favorita da media compiacenti e da notizie taroccate. Qualcuno dice che la coerenza tra il tanto sbandierato amore per la nostra Costituzione repubblicana di un sistema parlamentare e la difesa accanita di un regime a partito unico, con tanto di censura, galera per i dissidenti politici, rimane uno dei tanti misteri italiani. Avrà ragione?
Sono aspetti per i quali non ho trovato una risposta possibile, anche perché forse non esiste, ma che quanto meno mostrano come l’argomento possa risultare parecchio complicato; proprio perché nel raccontare Cuba si deve fare i conti non solo con una realtà documentata e documentabile, ma anche con dei miti inossidabili che resistono di fronte ad ogni evidenza. Era così ai tempi della cortina di ferro, lo è ancora oggi in versione ridotta e con un alone più esotico con la Cuba dei Castro, dove il metodo di manipolare la verità per ottenere consenso sembra più efficace all’esterno del paese che al suo interno. Le vicende legate al dissenso cubano ritengo siano state ottimamente inquadrate da Lucia Capuzzi e Nello Scavo: pagine dove, anche con numerose interviste ai protagonisti, si raccontano le strategie per resistere alla repressione e il contrasto alla dittatura, sempre molto avventuroso e forse favorito da una sorta di protagonismo mediatico sulla piazza internazionale. I due autori, pur avendo definito in maniera forse un po’ riduttiva l’opposizione al regime nei termini di “microcosmo”, però – e qui troviamo uno degli aspetti più positivi dei libro – danno conto di un dissenso molto differenziato, dove si intersecano diverse ideologie, fedi e generazioni. Prendiamo ad esempio la comunità cubana in esilio, come descritta da Rui Ferriera, giornalista del Mundo: “Riunisce quattro generazioni. I più vecchi – in Florida dall’inizio tra il 1959 e il 1960 – sono i “batistiani”, tutt’ora fedeli al dittatore deposto da Castro e intransigenti a ogni apertura. Poi, negli anni ’60, a questo primo nucleo si aggiunsero gli imprenditori e i commercianti in fuga dalla “statalizzazione”. Negli anni ’80, a Miami, si stabilì la cosiddetta generazione del Mariel: nel 1980 Castro autorizzò un esodo di massa via mare che andò avanti per circa sei mesi. L’ultima arrivata è la “generazione di Guantanamo”, composta da coloro che nel 1994 fuggirono a bordo di zattere e furono alloggiati dagli USA, per diversi mesi, nella base di Guantanamo. Quest’ultimo gruppo è fuggito per ragioni squisitamente economiche. La politica non c’entra, è un terreno estraneo in cui non si avventurano. Gli esuli del Mariel sono scappati per un mix di ragioni economiche e politiche: sono coloro che a vent’anni si riempirono di entusiasmo per la rivoluzione e, con il tempo, ne sono rimasti delusi” (pag. 60).
Altro aspetto controverso affrontato dai protagonisti di “Adios Fidel” è il cosiddetto bloqueo – l’embargo economico – che rappresenta per i sostenitori dei Castro la giustificazione ultima dell’ingiustificabile. Ce ne parla ancora Rui Ferriera in maniera poco ortodossa: “I suoi effetti ora però sono praticamente inesistenti: gli USA sono il primo partner commerciale dell’Avana, grazie ad un’autorizzazione speciale per aggirare l’embargo firmata da Bush Jr. nel 2002.”. Il bloqueo ad oggi avrebbe sostanzialmente una funzione politica: il regime cubano lo usa per giustificare la sua crisi e conservare il potere, mentre per gli Stati Uniti è il modo più indolore per accontentare quella componente più dura degli esuli cubani formata dagli ex sostenitori di Batista. Si comprende perciò come in questi termini Capuzzi e Scavo abbiano raccontato i doppi, tripli giochi, bufale statunitensi e bufale castriste, ma altresì vicende di tutt’altro tenore come il ruolo della Chiesa e della religione nell’isola caraibica: la visita di Giovanni Paolo II, favorita dal crollo dei regimi dell’est e con un Castro in cerca di una sponda in occidente, avrebbe di fatto sancito una normalizzazione delle relazioni (ricordiamo l’ateismo di stato, l’abolizione del Natale come festa imperialista, le persecuzioni religiose degli anni ’70) tra lo stato socialista e il Vaticano, rompendo l’embargo internazionale.
Con questa mossa la Chiesa Cattolica ottenne una doppia legittimazione, da un lato come portavoce dell’opposizione politica e nello stesso tempo interlocutore del regime: frutto della visita ufficiale in uno stato dittatoriale che pare non abbia causato quella levata di scudi seguita all’incontro di Wojtyla con Pinochet e che ancora viene rinfacciato al papa polacco come dimostrazione del suo cinismo. Comunque sia gli effetti di questa apertura reciproca tra Cuba e Vaticano ci sono stati ma, se pure hanno portato ad un ammorbidimento delle persecuzioni religiose, sempre entro limiti molto stringenti. “Il governo – denuncia Reporters sans Frontieres – impone l’omologazione politica usando i procedimenti penali, la detenzione, la violenza, la negazione del posto di lavoro e le restrizioni agli spostamenti, anche all’interno dell’isola” (pag. 79). In questo senso pare illuminante un brano dall’intervista a German J. Miret, cubano, cattolico: “Molti intellettuali sostengono la causa socialista perché alternativa alle dittature di destra, tacendo però i suoi reati. Alcuni sono politicamente molto ingenui [oppure molto cinici?: n.d.r.]. Fidel Castro è riuscito a convincerli che lui lotta contro gli USA e non contro il popolo cubano”.
Ed ancora: “Molti ritengono che quella di Castro non sia una tirannia. Chi non conosce la storia di Cuba pensa che oggi si stia meglio che nel passato. Non è così. Le disuguaglianze sociali si sono acuite e il tenore di vita, specie nei villaggi rurali, è stato distrutto dai disastrosi piani economici del socialismo” (pag. 88). Frasi che mi ricordano alcune domande (retoriche) contenute nel sito internet procubalibre (l’autore, Enrico Carcasci, non se la prenderà a male se lo cito) e rivolte ad una intellettuale filocastrista: “L’impossibilità dei cubani di manifestare pubblicamente dissenso verso il proprio governo, l’impossibilità di riunirsi in assemblee pubbliche, l’impossibilità di svolgere attività politiche se non all’interno di un unico partito consentito dalla legge, secondo Lei, sono da attribuirsi all’embargo USA o al regime cubano? La censura esistente a Cuba su stampa, radio, tv, libri, fino ad arrivare al controllo della corrispondenza, secondo Lei, è da attribuirsi all’embargo USA od al regime castrista?”. Peraltro se è vero che né Fidel, ne Raul sono dei “tiranni sanguinari” nel senso inteso in America Latina, e che dopo la Revolucion furono smantellate le camere di tortura nei commissariati, Jesus Diaz, morto in esilio a Madrid nel 2002, ci ricorda che a fronte di un Batista che aveva fatto largo uso di mutilazioni, evirazioni, scariche elettriche, i Castro hanno preferito la formula “poco sangue, molto terrore”. E qui infatti i nostri due giornalisti hanno ricordato la Ley Mordaza (legge bavaglio), il periodo especial, la morte di Orlando Zapata; e ancora hanno dato conto di altre interviste agli oppositori del regime come Canek Guevara (nipote del Che), Yoani Sánchez. Ricordiamo le parole di Laura Pollàn, delle Damas de Blanco e poi quelle di Guillermo “Coco” Farinas (Premio Sakharov 2010 del Parlamento europeo), peraltro autore della prefazione al libro, che mostra come un convinto rivoluzionario, negli anni, si sia ricreduto al punto di rischiare la vita per contribuire ad abbattere un regime scoperto, troppo tardi, come repressivo e contrario ai propri ideali: “Ho creduto nel castrismo. E nel socialismo. Credo ancora in uno stato sociale forte. Ma Fidel Castro – e ora Raul – hanno trasformato Cuba in una sorta di affare personale. Il regime ha fornito istruzione, sanità, speranze. In cambio però ci ha privato della libertà. Cuba è un’immensa galera di cui i Castro hanno la chiave. Ho ripudiato il regime dopo la condanna a morte di Ochoa, nel 1989, con la falsa accusa di narcotraffico. Ma mi ero già allontanato nel 1980 al tempo dell’esodo del Mariel” (pag. 152).
Andando a rileggere Miret, poi Farinas e magari il blog di Yoani Sanchez, magari agli occhi di coloro che non hanno approfondito le tante facce di Cuba sotto il regime castrista, l’opposizione potrebbe apparire divisa nel considerare i risultati ottenuti dalla Revolucion nell’ambito sociale, ma comunque unita nel denunciare la mancanza di libertà, la repressione del dissenso, la violazione dei diritti umani, la censura, la propaganda che nasconde la realtà. E proprio questa parola, alla fine dell’intervista resa da Yoani Sanchez e Reinaldo Escobar, chiude nel miglior modo possibile il libro di Capuzzi e Scavo. “A Cuba l’oppositore più temibile è la realtà”.
Edizione esaminata e brevi note
Lucia Capuzzi è nata a Cagliari nel 1978. Laureata in Scienze Politiche e specializzata in Storia dei Partiti Politici a Urbino, ha lavorato al tg «Leonardo» della Rai. Ora è alla redazione Esteri di «Avvenire». È autrice del volume Haiti. Il silenzio infranto, edito da Marietti 1820 nel 2010.
Nello Scavo è nato a Catania nel 1972. Giornalista del quotidiano «Avvenire», ha studiato presso il BBC College of Journalism di Londra. Si occupa di cronaca giudiziaria, criminalità e terrorismo internazionale. Ha scritto Di rata in rata. Viaggio nel paese strozzato dall’usura, edito da L’Ancora del Mediterraneo nel 2009.
Lucia Capuzzi, Nello Scavo, Adiós Fidel. Fede e dissenso nella Cuba dei Castro, Lindau, Torino 2011, euro 16,00
Recensione già pubblicata l’11 maggio 2011 su ciao.it e qui parzialmente modificata
Luca Menichetti. Lankelot, maggio 2011.
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