Dopo tanti anni come inviato speciale per la televisione, per forza di cose ci sono episodi, incontri, storie che rimangono più che mai presenti nella memoria e rappresentano al meglio il significato del proprio mestiere. In tempo di velinari e zelanti operatori nel campo della disinformazione di massa fa sempre piacere leggere delle cronache che ti riportano con i piedi in terra e mostrano la realtà così com’è; anche nella sua veste più tragica e priva di consolazioni. “Nel silenzio un canto” spazia da Alda Merini alle fabbriche di abbigliamento in Albania: nessun argomento principe raccontato con l’intento di dimostrare una tesi, ma semmai pagine dove l’autore riporta quelle esperienze scaturite dal mestiere di documentarista di fronte a drammi personali, collettivi e che evidentemente hanno rappresentato qualcosa di ben diverso dalla normale routine. Lo stile, fatto di immagini essenziali, pochi preamboli, che va dritto agli aspetti più drammatici, senza particolari divagazioni, è una cronaca che ricorda un servizio televisivo di buona fattura.
Un po’come quelli curati da Enzo Biagi e Zavoli, con i quali ha lavorato proprio Nevio Casadio. Una pagina scritta dove si riconosce la mano del documentarista. Di fronte a vicende tali da poter essere descritte e commentate con tinte forti ed una sorta di compiacimento, va dato atto all’autore di aver mantenuto uno stile sobrio, seppur non disgiunto da toni evocativi, e di aver evidenziato quei drammi collettivi e personali senza il facile ausilio della retorica e di argomentazioni scopertamente politiche. Penso alle pagine dove si ricorda l’attività di Gino Strada, finalmente raccontato nelle sue vesti di chirurgo impegnato nei teatri di guerra. Il Gino Strada più discutibile, quello della “guerra senza se e senza ma”, amatissimo proprio per questo suo pacifismo assoluto da coloro che in certi momenti non sembrano poi così pacifici e con idee tanto pacifiste, ci viene risparmiato. Anche questa è un scelta di sobrietà nel descrivere una realtà non compromessa da fantasie, ipocrisie, utopie sempre molto fragili e subito rinnegate nel momento in cui si riaffacciano le passioni della politica. Il giornalista ed autore del libro si mostra quindi in linea con la sua attività di documentarista non solo dal lato strettamente stilistico: la professione di una vita è il filo rosso che unisce storie apparentemente con pochi punti in comune.
Il viaggio nella memoria inizia con Dario Bellezza, ormai malato terminale, sfinito dall’AIDS, incontrato nella sua casa di via Bertani: la telecamera evitò di riprendere l’atmosfera triste dell’appartamento come a voler ricambiare con discrezione le confidenze del poeta morente. Poche pennellate rendono l’idea di come in questo caso la parola possa esprimere stati d’animo che non sempre le immagini, probabilmente quelle stesse riprese nelle vesti di documentarista, possono comunicare: “La vita” esordì “è ricordarsi il risveglio triste in un treno all’alba, ecco qui sta la vita, la nostalgia della vita. Qui c’è il sapore del risveglio mattutino, la vita è un po’ questa cosa qui. La mattina quando mi sveglio e ancora non ho preso completamente coscienza di chi sono, per il fatto che non sto bene, ricordo questo verso di Sandro Penna. Ed è un fatto positivo perché ti porta a fare delle cose semplici, che fanno tutte le persone comuni”. In “L’inferno di Korogocho” incontriamo Padre Alessandro Zanotelli che esordisce spiazzando il suo intervistatore: “preferirei parlare con lei a telecamere spente, non credo molto nella televisione italiana. Mi spiace”. Parole magari irritanti se rivolte ad un giornalista scrupoloso de onesto ma che denotano sicuramente molta lucidità. E di questa lucidità Casadio ci dà conto, sia raccontandoci la storia di questo coraggioso padre comboniano, da anni alle prese con denunce di collusioni tra trafficanti e regimi, incomprensioni (o forse troppa comprensione) da parte delle gerarchie ecclesiastiche, sia lasciando spazio alle sue parole del missionario “povero tra i poveri”: “Korogocho prima di tutto è una delle tante baraccopoli di Nairobi [..] Qui sono concentrate circa centomila persone in situazioni spaventose, immerse nel profondo degrado ambientale, miseria, malattie, una tragedia inimmaginabile…[..] Forse qualcuno resterà sorpreso, ma io da tempo sto pensando al problema di Dio, io non so, non so più neanche chi sia Dio sinceramente”. Ma poi:“ la cosa incredibile per me, è che sono proprio i poveri a rivelarmi il volto di Dio”.
Torniamo poi a Milano con Alda Merini, prima delle sue apparizioni al Costanzo Show e prima delle performaces che ne avevano fatto una diva da piccolo schermo, ripercorrendo la sua vita complicata in un colloquio dove, vista la personalità della poetessa, era inevitabile parlare di arte, mistero e pazzia. A seguire uno dei capitoli più lunghi del libro, intitolato “La ballata di Giuliano”: qui sono protagoniste le vittime di “morte bianca”, vittime del lavoro ma soprattutto del disinteresse legislativo, di un malcompresa idea di competitività economica e sicuramente anche dei media, spesso superficiali, gossippari e manchevoli nella loro funzione principale. Evidentemente parlare di informazione, soprattutto su certi temi e su periodici dove non esistono editori “puri” ma semmai personaggi con molteplici interessi, e neanche tutti limpidi, è un po’ azzardato. Giuliano Valdi, soltanto uno dei lavoratori raccontati da Casadio, aveva ventitre anni e, in quel profondo nord così tanto decantato come culla di efficientismo e modernità, c’ha lasciato la pelle nello smerigliare macchinette da caffè. Mentre il titolare dell’azienda sventrata dall’esplosione, coerentemente si limitava ad affermare che “il lavoro è il lavoro, anche andando in bicicletta può capitare un guaio a chiunque, no? Sono stato accusato di aver messo in regola il mio personale il giorno in cui mi è successo il sinistro, andiamoci piano con le accuse, soprattutto perché non venute fuori, faccia e faccia, a dirmi una cosa del genere, intesi?”.
Un cinismo imprenditoriale, tutto italiano, che ritroviamo subito nelle pagine a seguire, ovvero un viaggio in un’Albania stretta nella morsa della vendetta di sangue (il “Kanun”): gli abitanti di quelle terre, oltre a subire una legge secolare che è diventata pretesto per compiere delitti di stampo mafioso, hanno avuto pure la sfortuna di incontrare dei nostri connazionali. “Nel viaggio di un reggiseno”, partendo dalla Val Camonica, Casadio torna in nell’Albania raccontata in “Kanun” ed incontra proprio un imprenditore bresciano trasferito all’estero in cerca di manodopera meno esigente e maggiormente sfruttabile. Ed è in quelle fabbriche di abbigliamento intimo, di titolarità italiana, dove le operaie, in dispregio di ogni elementare regola, vengono perquisite e denudate per prevenire furti di slip e reggiseno. Casadio chiede al “bresciano dal portamento di un bisonte” per quanto tempo avrebbe mantenuto la fabbrica in Albania. E lui: “mi guardò quasi incredulo: ma gliel’ho già detto no? Io compro e vendo mani, cove più mi conviene” (pag. 139). “Nel silenzio un canto” è anche un reportage sull’India delle fabbriche di mattoni, dove le cosiddette donne-mulo sono schiave insieme a tutti i loro familiari; ed anche l’India dei dalit, i centosessanta milioni di intoccabili, ed il paese dello tsunami. Ancora vengono ricordati i cronisti italiani uccisi mentre cercavano di fare il loro mestiere, ovvero raccontare verità scomode per i criminali oggetto delle loro inchieste: Giuseppe Fava, Giancarlo Siani, Beppe Alfano, Walter Tobagi, Ilaria Alpi, Almerigo Grilz, Enzo Baldoni e tanti altri. Le storie, trattate sempre con stile appassionato e lirico, sono ancora tante per un libro definito “romanzo tenero e violento di vita reale”; e sicuramente il lettore, al termine di questo viaggio complesso, pieno di volti sofferenti ma anche pieni di dignità e voglia di riscatto, potrà capire perché, con coerenza, il libro si apre con una citazione di Ryszard Kapuscinski: “La nostra professione è una lotta costante tra il nostro sogno, la nostra volontà di essere del tutto indipendenti e le situazioni reali in cui ci troviamo, che ci costringono invece ad essere indipendenti da interessi, punti di vista, aspettative dei nostri editori…In generale si tratta di una professione che richiede una continua lotta e un costante stato di allerta”. E per nostra fortuna di lettori Nevio Casadio col suo “Nel silenzio un canto” questa lotta l’ha affrontata a viso aperto e ci ha regalato un libro che è anche un tributo ad un giornalismo concepito come libertà e come un mestiere senza padroni.
Edizione esaminata e brevi note
Nevio Casadio, giornalista, autore televisivo. In Rai ha lavorato con Biagi e con Zavoli. A Montanelli ha dedicato il programma per Rai Sat di otto puntate “Montanelli tv”; per RSC “Gli anni della televisione”, un progetto editoriale di 8 DVD. Ha vinto il Premio Guidarello per il Giornalismo d’autore tre volte il premio giornalistico Ilaria Alpi. Ha curato “Per Venezia” di Indro Montanelli, edito da Marsilio nel 2010. Alcune sue opere: “Sergio, ti mando il fax! Un reporter romagnolo per Il Mattino di Napoli” (1997), “Polesine 51” (2002), “Tramonti, dal periodo veneziano ai primi anni 50” (2006), “Informazione e Lavoro” (2007).
Nevio Casadio, Nel silenzio un canto. Storie di ingiustizie, dolore e riscatti, Marsilio, Venezia 2010, prefazione di Ettore Mo, pp.254
Approfondimento in rete: http://www.documentando.com/autore.php?id=098
Recensione già pubblicata su ciao.it il 17 maggio 2011 e qui parzialmente modificata
Luca Menichetti. Lankelot, maggio 2011
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