Ci sono libri che una limitata schiera di “illuminati”- forse davvero troppo limitata – ha considerato indispensabili per l’importanza dei loro contenuti, ma che non sono più stati ristampati e ormai sono diventati introvabili. Uno di questi misteri dell’editoria italiana è rappresentato da “La storia del futuro di tangentopoli”. Si racconta che non pochi magistrati abbiano da subito considerato questo libro di Cicconi come un testo indispensabile da consultare periodicamente, anche al solo fine di chiarirsi le idee sulle raffinatissime manovre che, finita la stagione di “mani pulite”, hanno perpetuato e potenziato il sistema di tangentopoli. Uno dei tanti paradossi italiani: l’opera di un ingegnere, seppur esperto di appalti, diventata oggetto di culto per dei giuristi. Certo è che, dopo averlo letto, ci si rende conto che di leggenda metropolitana e paradosso non c’è proprio nulla. E’ assolutamente plausibile, anzi logico, che “La storia del futuro di tangentopoli” abbia ricevuto entusiastici consensi, seppur in un ambito ristretto di esperti che poi magari nemmeno hanno potuto o voluto opporsi al ricco banchetto di partiti, mafie ed imprenditori amici. La definizione di “profetico” per un libro come questo ci sta benissimo e non c’è alcun motivo di considerarla un’affermazione enfatica od esagerata. Quanto scrisse Cicconi in quel 1998 è poi stato parzialmente riportato nel suo più recente “Il libro nero dell’Alta Velocità” (2011), ma il testo originario ancor di più svela, citando con estrema precisione gli escamotage giuridici e quelle bugie che – in Italia – ripetute all’infinito diventano verità, i meccanismi messi in atto per salvare e perfezionare un sistema di spartizione e saccheggio di risorse pubbliche.
La tesi di fondo è espressa a pagina 36, dove si evita di identificare “Mani pulite” col più esteso Sistema di Tangentopoli: “A differenza di altre indagini, a Milano si è voluto colpire solo i soggetti protagonisti del Rito Ambrosiano, il Sistema di Tangentopoli è rimasto sullo sfondo. Da qui la forza ancora dirompente di Mani Pulite nel colpire il rito, ma anche la sua maggiore debolezza anzi la sua totale assenza di azione sul Sistema [….] per conoscere Tangentopoli occorre spostarsi altrove, su altre indagini e fuori da Milano, la dove la cultura dell’indagine è andata oltre i vincoli dei reati di corruzione e di finanziamento illecito”. Cicconi difatti, anche sulla base della normativa vigente in tema di appalti, distingue tre “riti”. Nel cosiddetto “Rito Ambrosiano” (quello colpito dal pool di Mani Pulite), l’attore è l’impresa privata ed i beneficiari sono i politici: “La transazione in questo caso non può che avvenire attraverso la mazzetta o tangente propriamente detta, normalmente e necessariamente occultata, costosa ma particolarmente flessibile e senza colore preventivo”.
Nel “Rito Emiliano”, invece, “l’attore è l’impresa cooperativa (o comunque un soggetto imprenditoriale nel quale si esprima una presenza interna di componenti partitiche), il beneficiario è il “partito” presente nell’impresa. Il rito in questo caso non ha bisogno della transazione occulta; quello che deve essere garantito è il controllo dei programmi in grado di assicurare la presenza di quella impresa nel mercato dei lavori pubblici”. Tanto per capirci, non c’è alcuna necessità che un presidente di una cooperativa passi la mazzetta ad un sindaco iscritto al suo stesso partito; basterà che venga garantita l’assunzione di un dirigente, la pubblicità su un giornale, una sponsorizzazione e così via. Qualcosa che ricorda un certo “sistema gelatinoso” (per citare recenti inchieste e definizioni giornalistiche) dove gli eventuali illeciti corrono sul filo della truffa e dell’uso distorto dei poteri amministrativi, piuttosto che su quello della tangente propriamente detta e del reato di corruzione. Appunto per questo, in costanza oltretutto di fattispecie di reato depotenziate per legge (ad esempio l’abuso d’ufficio), diventa più difficile per la magistratura incastrare questi signori che “si sacrificano per noi”.
Ed infine il “Rito Mafioso” nel quale gli attori sono “tutte le imprese”, mentre il beneficiario è “l’impresa mafiosa” che garantisce l’interesse più importante per la mafia, quello del controllo di alcune attività economiche fondamentali legate al territorio e dunque un controllo sociale che consente anche di garantire l’elezione del politico mafioso o a disposizione della mafia” (pag. 112). In questo contesto, nel quale i “riti” possono intrecciarsi, la cosiddetta emergenza, il tecnico (comprato) e le procedure straordinarie (i cui ambiti si sono ampliate di legge in legge) garantiscono la partenza di opere milionarie, se non miliardarie: “cooperative, privati, mafia, politici con la garanzia del tecnico possono finalmente celebrare i loro riti con una voracità senza pari, questo in poche righe è il Sistema Tangentopoli”. Sistema che, a bene vedere, si è appunto perfezionato negli anni, giocando su equivoci, tra le pieghe di una legislazione ipertrofica e mai veramente conosciuta in tutta la sua complessità neppure tra gli operatori del diritto. Un esempio l’abbiamo avuto con la cosiddetta certificazione antimafia che ha ostacolato la presenza mafiosa negli appalti e nei subappalti, non nei noli e nelle attività di movimento terra e trasporti (subcontratti che non rientrano nella tipologia dei subappalti): siccome per i contratti di fornitura, come per i noli, l’impresa non era tenuta a chiedere alcuna autorizzazione alla stazione appaltante, abbiamo avuto il paradosso di una legge che non ha affatto ostacolato l’ingresso dei mafiosi nei lavori pubblici, ma ne ha semmai favorito la presenza specializzata. Inoltre vengono rilevati i limiti delle indagini imbastite da “Mani Pulite”, nella quali, se si cercò di scoprire le mazzette con la collaborazione degli imprenditori, non vi fu nessun reale approfondimento riguardo i meccanismi, procedure di realizzazione delle opere e sugli illeciti penali e amministrativi nella gestione degli appalti. Quindi, ancora una volta, rito mafioso e rito emiliano hanno potuto estendere e rafforzare il loro potere. Bisogna però spiegare meglio quel “futuro” del titolo e perché il libro è stato definito a buon titolo profetico”.
Edita nel 1998, l’opera di Cicconi precede sia la truffaldina riforma bipartisan dell’art. 111 C., sia la “legge obiettivo” di Lunardi ed altre ladrate; ma col senno di poi ci si rende conto come le denunce presenti, soprattutto quelle che analizzano in profondità i trappoloni imbastiti con le “grandi opere”, siano qualcosa di molto vicino a noi: tutto quanto nel 1998 si profetizzava e già si descriveva in essere come un uso distorto delle risorse pubbliche, col supporto della disinformazione, dolosa o colposa che sia, da parte dei media, rappresenta nel 2012 una realtà ormai consolidata. Cicconi racconta la nascita del sistema delle mazzette col terremoto del ’76 e la conseguente legislazione emergenziale; poi passando da un’atrocità giuridica dietro l’altra con il sostanzioso apporto dei Pomicino boys e di altri appassionati mazzettari, si arriva a quella che, nel 1998, con Necci e compagnia era stretta attualità. E ora come allora questo sistema che si giustifica all’opinione pubblica meno scafata con le parole d’ordine tipo “si fa perché si deve fare”, oppure “lo vuole il progresso”, ha come base istituti come la concessione di committenza, nella loro assurdità giuridica e logica, propri soltanto di un paese esotico come l’Italia.
Giusto per capirci e con le parole dello stesso Cicconi: “Il trasferimento di funzioni e scelte fondamentali all’impresa chiamata a realizzare il lavoro, con il contratto di concessione, può infatti garantire la qualità dell’opera da realizzare ad una sola, semplice e banale condizione. La condizione si realizza quando il contratto di concessione si caratterizzi dal fatto che la controprestazione a favore del concessionario consista unicamente nel diritto di gestire l’opera pubblica, oppure da questo diritto accompagnato da un prezzo; così si esprime l’Unione Europea con la direttiva 440 del 1989” (pag. 133). Stesso concetto, ancor più chiaro, nella sua opera successiva “Le grandi opere del cavaliere”: “solo se dalla gestione dell’opera dovrà ricavare (recuperare) le risorse necessarie per realizzarle, sarà stimolato a farlo presto e bene. Solo se l’opera sarà fatta bene potrà utilizzarla con i massimo profitto” (pag. 104) (n.d.r.: questa infatti la definizione recepita dalla L. 109/1994, la Merloni). Invece nel “modello Tav” il privato assume tutti i poteri del concessionario ma con l’esclusione del rischio di gestione: “Il rischio della gestione è invece a carico del concessionario al quale lo Stato ha affidato la progettazione, costruzione e gestione dell’opera: una società di diritto privato (S.p.A.) con capitale tutto pubblico. E’ su questo concessionario che rimane il rischio della gestione e dunque del project financing necessario per la realizzazione” (pag. 107). Un sistema “perverso” per lo Stato, l’erario, ma quanto mai favorevole per privati ammanicati con partiti e mafie che hanno tutto l’interesse ad imbastire opere sempre più costose e devastanti.
Ed oggi cosa succede in Italia? Presunti liberali all’italiana (più interessati a foraggiarsi che a fare i liberali) difendono a spada tratta un sistema che è contro qualsiasi logica di mercato (in soldoni la concessione di committenza che, come spiegato, fa lievitare costi delle opere a dismisura e mette a rischio il già fragile equilibrio ambientale e idrogeologico del nostro paese); alcuni cittadini che negli anni hanno compreso che la tanto decantata “crescita” è semmai quella delle mazzette e della spartizione di denaro pubblico e quindi s’incazzano; personaggi pronti a cavalcare ogni antagonismo, che magari hanno davvero in testa Marx, e, ideologizzati senza idee come sono, di fatto si oppongono ad un sistema contrario a quella logica di mercato che poi accusano essere responsabile di ogni nefandezza. Un esotismo tutto italiano, a mente fredda anche divertente.
Efficace la metafora, ispirata da Paolo Volponi, che chiude il libro: “Il Sistema assomiglia molto a quello che il giudice Di Pietro, nell’Era Mani Pulite, semplicemente sorvolò: le mosche abbattute furono moltissime, ma caddero solo intontite, furono raccolte dalla banda, o squadra, e nutrite più e meglio di prima”.
Edizione esaminata e brevi note
Ivan Cicconi si è laureato in ingegneria a Bologna dove vive e lavora. E’ autore di saggi e ricerche sul settore delle costruzioni e sul tema degli appalti. Ha lavorato in diverse società di ricerca ed è stato professore a contratto nelle facoltà di Architettura delle Università La Sapienza di Roma e de Il Politecnico di Torino. E’ stato capo della Segreteria Tecnica del Ministro dei Lavori Pubblici Nerio Nesi nella XIII legislatura. Fino al 2007 è stato è direttore generale di NuovaQuasco, una importante società di ricerca per la “Qualità degli appalti e la sostenibilità del costruire”. Attualmente è Presidente del Comitato di Sorveglianza della Stazione Unica Appaltante della Regione Calabria, e di Direttore dell’Associazione Nazionale ITACA, Istituto per la Trasparenza degli Appalti e la Compatibilità Ambientale. Il suo libro più noto è “La storia del futuro di tangentopoli” (1998), al quale è seguito “Le grandi opere del Cavaliere” (2003) e poi “Il libro nero dell’Alta Velocità” (2011)
Ivan Cicconi, “La Storia del futuro di tangentopoli”, Dei S.r.l. Tipografia del Genio Civile, Roma 1998
Recensione già pubblicata il 15 marzo 2012 su ciao.it e qui parzialmente modificata.
Luca Menichetti, per Lankelot, marzo 2012
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