Nazionalismo e imperialismo, e non solo comunismo e collettivizzazione, sono alcune delle parole chiave presenti nell’ultimo libro di Ettore Cinnella dedicato al genocidio dei contadini sovietici. Parole che, come ha subito evidenziato l’autore, assumono un particolare significato alla luce anche della guerra non dichiarata tra la Russia di Putin e l’Ucraina di Porošenko. Le ricerche di Cinnella, non ci svelano soltanto le premesse e gli esiti devastanti dell’holomodor, ma anche le colpe degli storici e dei paesi occidentali che non vollero vedere o non furono in grado di comprendere cosa stava accadendo: atteggiamenti complici e omissivi (si pensi a Walter Duranty), talvolta frutto di pregiudizi ideologici, che, come in un déjà-vu e nonostante contesti molto diversi, sembrano tornare alla ribalta. Non a caso, proprio ad apertura del volume, si legge della minoranza (ora come allora) che ha a cuore il destino di una terra invasa e smembrata in spregio del diritto internazionale e della morale. Premessa a parte il libro prosegue con approccio che sembra conciliare il rigore della ricerca storica, anche grazie a un’analisi puntuale di documenti tratti dagli archivi dell’ex Unione Sovietica, con la facilità di lettura tipica della saggistica divulgativa. L’argomento, a quanto pare, non è troppo conosciuto, altrimenti non si parlerebbe di “genocidio dimenticato” e del più grande crimine di Stalin: gli stessi storici, come più volte ci ricorda Cinnella, con grande fatica e con molti distinguo hanno dovuto prendere atto di fatti inoppugnabili. Per cominciare proprio la “criminosa responsabilità politica del partito di Stalin nel lanciare la collettivizzazione delle campagne che, per il modo in cui venne concepita e attuata, non poteva non suscitare la pugnace resistenza dell’intero modo contadino (a parte piccolissime frange)” (pp.272). A fronte poi della crisi agricola e della carestia provocate dalla politica governativa, della liquidazione dei kulaki e delle deportazioni forzate, ecco che gli scherani di Stalin, anziché rimediare agli errori commessi, vollero reprimere il dissenso dei contadini affamandoli. Ed inoltre, malgrado l’inedia dilagasse in tutta l’URSS, Cinnella ci ricorda ancora come la carestia orchestrata dal regime infuriò più che mai nei territori ucraini. Carestia provocata ad arte, tanto che “i segugi del partito e della Gioventù comunista perlustrarono a tappeto le campagne, estorcendo con violenza quei pochi generi commestibili, che le famiglie contadine erano riuscite a tenere per sé”. Ne conseguì che “la distribuzione selettiva delle risorse alimentari, assegnate solo ai contadini disposti a sottomettersi alla disciplina dei colcos, si rivelò un’arma formidabile nella guerra contro il mondo rurale” (pp.277). Oltretutto, proprio in Ucraina, paese di frontiera con l’ostile Polonia di Piłsudski, tutto si amplificò: la minaccia nazionalistica dei “piccoli borghesi” si confuse con la lotta spietata contro i ribelli che non accettavano la collettivizzazione dei loro beni e di lavorare gratuitamente per lo Stato. E’ vero che la decisione di far morire di inedia milioni di persone giunse dopo un alternarsi “di misure draconiane e modeste concessioni” (pp.212). Ma l’epilogo, in considerazione del pur oscillante piano degli ammassi, non poteva che essere tragico: “i contadini, tartassati oltre misura e ormai allo stremo, non potevano soddisfare le esose richieste del potere centrale, che li avrebbero ridotti alla fame” (pp.214). Poi dalla fine del 1932 al 1933 furono prese le decisioni che portarono definitivamente al tracollo: “fu deciso di inviare nei villaggi squadre di operai comunisti, alla quali veniva di fatto permesso di sequestrare e portar via il grano e tutti gli altri prodotti agricoli” (pp.219). Ai contadini dell’Ucraina, del Caucaso settentrionale e di alcune zone del Volga non rimase più nulla da mangiare, oppressi oltretutto dalla minaccia di venire fucilati se si fossero impadroniti di qualche bene pubblico. Il timore che collettivizzazione fosse in realtà una versione moderna dei servi della gleba si rivelò fondato, non fosse altro che, volendo portare a termine la repressione per fame, per legge agli agricoltori, ormai privati dei diritti politici e civili, non fu concesso di trasferirsi liberamente nelle città, dove ancora si riusciva a sopravvivere: le strade e le stazioni ferroviarie erano sorvegliate da uomini armati. Nelle campagne intanto la follia si faceva strada, si moriva per strada, si moltiplicavano casi di cannibalismo, si tentava di sopravvivere mangiando di tutto, topi compresi, cortecce, pula.
In questo senso le testimonianze, talvolta raccapriccianti, che leggiamo nel libro di Cinnella, risultano molto eloquenti. Parimenti la strage infinita dei pastori nomadi del Kazakistan si inserì in questo disegno di repressione mediante fame e distruzione di antichi usi e costumi. La strategia staliniana era ormai chiara: lo sterminio per fame, mezzo efficace e sicuro per domare la ribellione contadina e così affermare definitivamente la realizzazione di un socialismo tirannico e statalistico, aveva anche il vantaggio, in una situazione di diminuite risorse alimentari, di usare il grano come strumento politico di pressione e ricatto. Ed infatti furono proprio la politica e un’idea distorta di collettivizzazione a provocare i disastri più duraturi, anche al di là della volontà di sterminio. Così Cinnella: “La statalizzazione dell’agricoltura, coinvolgendo decine di milioni di contadini e provocando disastri economici e lutti fu il massimo trauma collettivo del mondo sovietico. Oltre che materiale, il trauma fu altresì di natura morale. La nuova società venne edificata sradicando e calpestando, in un brevissimo lasso di tempo, antiche abitudini di vita e di lavoro, nonché mentalità e idee della stragrande maggioranza della popolazione” (pp.91). I contrapposti nazionalismi hanno da un lato minimizzato l’holomodor, dall’altro lo hanno dipinto come una sorta di genocidio nazionale, ma è un dato di fatto che la morte per fame di milioni di abitanti della regione ucraina abbia voluto anche dire castigo per un popolo che agognava l’indipendenza da Mosca.
Edizione esaminata e brevi note
Ettore Cinnella, (Miglionico, 1947) storico italiano. Ha insegnato per molti anni Storia Contemporanea e Storia dell’Europa Orientale all’Università di Pisa. Il suo libro più noto, “La tragedia della rivoluzione russa (1917-1921″), è stato ristampato nella Storia Universale del «Corriere della Sera». È stato allievo della Scuola Normale Superiore di Pisa e dopo il crollo del regime comunista nell’URSS, ha lavorato nell’Archivio centrale del partito di Mosca (oggi Archivio statale russo di storia politico-sociale, RGASPI). Ha scritto saggi di storia russa e di storia contemporanea. Ha pubblicato “1905. La vera rivoluzione russa”, “Carmine Crocco. Un brigante nella grande storia”, “1917. La Russia verso l’abisso”, “L’altroMarx“.
Ettore Cinnella,“Ucraina. Il genocidio dimenticato (1932-1933)”, Della Porta (collana Sentieri), Pisa 2015, pp. 304.
Luca Menichetti. Lankelot, settembre 2015
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