In una recente intervista a El Pais Mia Couto ha parlato proprio di quel realismo magico che la critica ha spesso considerato peculiare di molta produzione letteraria dell’america latina. Nel caso dello scrittore mozambicano si tratta di letteratura lusofona, che nasce pur sempre dalla penisola iberica; ed è un dato di fatto che la sua opera ha avuto a che fare col cosiddetto realismo magico, sia che lo si intenda come una sorta di stile sia come corrente letteraria. Un magico che Couto sembra interpretare soprattutto nel senso di confronto e convivenza di innumerevoli culture e in misura minore come contrapposizione di reale e soprannaturale. Ce ne rendiamo conto leggendo “La confessione della leonessa” edito dalla Sellerio. Del resto, come scrive lo stesso Couto nell’introduzione, la storia sembra abbia preso spunto da fatti realmente accaduti: “Nel 2008, l’impresa i cui lavoro mandò quindici giovani, esperti in indagini ambientali sul campo, per iniziare le attività di prospezione sismica a Cabo Delgado, nel nord del Mozambico. Nello stesso periodo e nella stessa zona cominciarono a verificarsi attacchi di leoni nei confronti di persone […] I cacciatori passarono due mesi di frustrazione e terrore, facendo fronte a quotidiane richieste di soccorso, finché non riuscirono a uccidere i leoni assassini. Ma queste non furono le uniche difficoltà che incontrarono. Di continuo veniva loro suggerito che i veri colpevoli erano gli abitanti di quel mondo invisibile in cui pallottole e fucili perdono ogni efficacia. A poco a poco i cacciatori compresero che i misteri che affrontavano erano solo i sintomi di conflitti sociali che andavano ben oltre la loro capacità di risposta” (pag. 10). Poche righe ma che dicono molto, quasi tutto di “La confessione della leonessa”. La narrazione è affidata ad Arcanjo Baleiro, assoldato per mettere fine alla mattanza, e a Mariamar, alla quale i leoni hanno ucciso tre sorelle: capitoli nei quali si alternano la versione del cacciatore, quella della nativa del villaggio Kulumani e che si prestano a diverse chiavi di lettura. Il villaggio assediato dai leoni assassini ospita un mondo arcaico, così inteso soprattutto per la profonda compenetrazione di vita reale, poverissima, e superstizioni che mascherano segreti destinati prima o poi ad essere svelati. Potremmo parlare di allegorie, metafore, comunque di uno stile visionario che risulta particolarmente efficace per raccontare la comunità di Kulumani, circondata da una natura matrigna ed inoltre funestata da recenti disastri (viene evocata la guerra civile tra il RENAMO e il FRELIMO), da un patriarcato crudele e dalla speculare sottomissione delle donne, a volte vittime in cerca di riscatto, più spesso, come nel caso di Tandi, vittime e basta. Non è un caso quindi che in questa orchestrazione di innumerevoli visioni, armonizzate con abilità da un Mia Couto intento a mostrare via via relazioni inattese tra i personaggi, proprio le figure femminili risultino forse le più riuscite: oltre a Mariamar parliamo della madre Hanifa Assulua e poi di Naftalinda, pachidermica moglie del capo villaggio.
Assiste alle vicende uno scrittore Gustavo Regalo, spesso oggetto del disprezzo e delle perplessità del cacciatore Arcanjo Baleiro, forse frutto dell’autoironia dello stesso Mia Couto. Ma a parte la presenza di questo intellettuale, rappresentante del Mozambico civilizzato, la narrazione, con frequenti richiami alle leggende africane, procede mostrando l’aggressività dei tanti personaggi, delle vittime e dei padri e mariti snaturati, cacciatori ormai al termine della loro carriera; e svelando di pagina in pagina il perché di questi loro comportamenti, ingabbiati in un villaggio remoto, lontano dalle vie di comunicazione, che convive con polvere, povertà e con tradizioni che sembrano respingere soprattutto gli aspetti più positivi della modernità. Il mondo arcaico del villaggio Kulumani, a metà strada tra realtà tribale e desolante sobborgo del terzo mondo, si svela anche grazie alle convinzioni dei suoi abitanti, evidenti nei capitoli dove a parlare è Mariamar, preda di ricordi e visioni: sembra del tutto normale che i vivi e i morti comunichino tra di loro, che esistano “fabbricanti di leoni”, che le malattie si trasferiscano dagli umani agli alberi, che gli uomini si tramutino in leoni, e viceversa. Nel romanzo di Couto le visioni restano, tutt’al più si fanno meno enigmatiche, malgrado poi si capisca cosa realmente ha provocato le sofferenze di Arcanjo Baleiro e di suo fratello Rolando, perché Mariamar ha vissuto per anni inferma in una famiglia devastata dall’odio e dal rancore. Dietro la facciata della caccia alla leonessa, belva in carne e ossa ma nel contempo pretesto per dare sfogo a nuove e antiche visioni, si rivela un’altra violenza, molto più difficile da estirpare, generata ancora una volta da una mentalità patriarcale e a causa della quale, per sopravvivere e fuggire, probabilmente è necessario trasformarsi in felini assassini.
Edizione esaminata e brevi note
Mia Couto è il soprannome di António Emílio Leite Couto.Scrittore e biologo mozambicano è nato a Beira da genitori portoghesi il 5 luglio 1955. Mia Couto ha studiato medicina e si è presto dedicato alla letteratura e al giornalismo, per poi riprendere la propria formazione scientifica e laurearsi in biologia. Per le sue opere ha ricevuto i maggiori riconoscimenti letterari, tra cui il Premio Camões 2013 e il Premio Internazionale Neustadt. Vive a Maputo dove lavora come biologo. Ha scritto più di venti libri tradotti in altrettante lingue, tra cui “Terra sonnambula” (Guanda, 2002) e “Un fiume chiamato tempo, una casa chiamata terra” (Guanda, 2005).
Mia Couto, “La confessione della leonessa”, Sellerio (collana Il contesto), Palermo 2014, pag. 244. Traduzione di Vincenzo Barca.
Luca Menichetti. Lankelot, giugno 2014
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