L’espediente narrativo scelto dalla Pariani ha del verosimile: una ricercatrice milanese sale nelle remote valli del Piemonte e, armata di registratore vocale, intervista la vecchia Fenisia. L’intento possiede anche valenza etno-antropologica visto che Fenisia è una delle poche donne rimaste legate a leggende, tradizioni e tempi ormai sorpassati dall’agilità di telefonini e computer. Fenisia non s’è mai mossa dalla sua valle. Fenisia è nata nel novembre 1928 in una famiglia di sotterramorti ed è vissuta per lo più accanto al camposanto del Paese Piccolo: “…la Fenísia viene grande tra le lapidi, senza trovarci niente di strano. Sotterramorti è sopà Marziano e prima ancora lo è stato il nonno e lo sbinonno. Quando ancora è piccola così, le volte che somà Ghitín non si sente bene, il Marziano porta la bambina con sé al cimitero, per non lasciarla sola: mette la figlia in una cassetta all’ombra del cipresso e la lascia lì, infasciata stretta come un salame, col suo pistunín di latte tra le mani“.
Le bambine come Fenisia, come tutte le femmine, non sono una benedizione per nessuno. Le donne hanno un destino identico e una sorte già disegnata che persino il prete ribadisce dal pulpito: “Vivere da morta. Patire da muta. Obbedire da cieca. Amare da vergine“. E chi non si conforma, prima o poi, finisce col fare una brutta fine. Proprio come accade alla Griselda, che tutti chiamano Grisa, la cuginetta di Fenisia, una bimbetta bionda nella quale le solite linguacciute mai maritate vedono fin dalla nascita una bellezza portatrice di maledizioni e disgrazie. La Grisa, cresciuta selvatica tra i lupi per una stagione e poi riportata a casa tra strepiti ed ululati, ha in sé il seme della ribelle che suo padre Biâs non riesce a governare neppure con la solita quotidiana violenza. Per questo, seppur ragazzina, viene confinata in manicomio e allontanata dalla Fenisia che pure tanto l’amava.
Nella valle di donne nate male ce ne sono sempre state. A Fenisia lo racconta da sempre la nonna Malvina indicandole il prato delle Balenghe, “un posto da cui la gente della valle si tiene lontano, perché si dice – le leggende dicono – che sia zona maledetta in cui nei seculòrum venivano sepolte le stríe“. Bastava non rispettare le regole della comunità per ritrovarsi seppellite nel prato, un cimitero senza lapidi né croci né memoria. Eppure Fenisia tra quelle Balenghe ritrova e sente gli spiriti invisibili e silenti delle donne che l’hanno preceduta. Forse persino quello di sua madre, malata di tisi e morta chissà dove quando lei era piccina.
I capitoli si alternano: i dispari raccontano la vita di Fenisia, i pari procedono con l’intervista della studiosa. Ovviamente i rimandi sono inevitabili e c’è pur sempre un filo che lega gli uni agli altri. Il miscuglio tra italiano ed idioma montanaro è sicuramente uno dei punti di forza del romanzo. La Pariani ha saputo mantenere vivi e vibranti il ritmo e la cadenza di chi racconta e lo fa solo con la propria voce perché non sa scrivere o perché ha dimenticato come si fa. La montagna, come spiega la stessa scrittrice nella nota che chiude il libro, “più che un luogo geografico, è un’esperienza: quella di un mondo potente nella sua resistenza a certe pazze vertigini della modernità, ma assolutamente marginale“. Addentrarsi in un mondo marginale come quello della montagna è di per sé un’esperienza narrativa interessante e faticosa, indagare il sottomondo femminile presente in un mondo già marginale è un’opera che pretende ancora più riguardo e sensibilità.
Le donne lupo esistono, nella valle di Fenisia ma anche altrove. “Dicono che le donne somigliano alle bestie più dei maschi. C’è chi le paragona all’ape lavoratrice nel suo andirivieni, alla formichina che tiene tutto da conto, alla cicala sfaticata che canta all’estate, alla mula che riceve bastonate sul groppone. Lei pensa che, se c’è un paragone che si può fare, esistono solo due tipi di donne: quella che somiglia alla pecora smarrita nel fosso, folle di paura. O l’altra ch’è più vicina alla lupa“. E la lupa non è smarrita, non ha paura e, soprattutto, “non sopporta la stoppa che rimpinza di gonfio il fantoccione cascante del quieto vivere“.
Edizione esaminata e brevi note
Laura Pariani è nata nel 1951 a Busto Arsizio. La sua opera d’esordio, “Di corno o d’oro”, è una raccolta di racconti e risale al 1993. In seguito ha pubblicato “Il pettine” e “La spada e la luna” per Sellerio oltre a “La perfezione degli elastici (e del cinema)”, “La signora dei porci”, “La foto di Orta”, “Quando Dio ballava il tango”, “L’uovo di Gertrudina” e “La straduzione” tutti per Rizzoli. Più recenti “Le montagne di Don Patagonia” edito da Interlinea, “Il piatto dell’angelo” (Giunti) e “Nostra signora degli scorpioni” con Nicola Fantini (Sellerio). Per Einaudi ha pubblicato “Dio non ama i bambini” (2007), “Milano è una selva oscura” (2010, finalista al Premio Campiello), “La valle delle donne lupo” (2011) e “Questo viaggio chiamavamo amore” (2015).
Laura Pariani, “La valle delle donne lupo”, Einaudi, Torino, 2011.
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