A voler essere pedanti forse dovremmo definire letteratura concentrazionaria soltanto gli scritti “nati dall’esperienza dei campi di concentramento”. Interpretazione fin troppo restrittiva almeno se pensiamo ai “Racconti dal ghetto di Lodz”: gli ebrei presenti in quello che inizialmente voleva essere solo un centro di raccolta, poi diventato un polo industriale a basso costo di manodopera, erano in tutto e per tutto prigionieri senza alcuna via di scampo, seppure non in un campo di concentramento ufficiale. L’opera di Abram Cytrin, elaborata tra il 1940 e il 1944, rappresenta quindi qualcosa di peculiare, non semplicemente racconti di fantasia ma per lo più scritti che descrivono la vita quotidiana all’interno del ghetto. I taccuini del giovanissimo autore, morto ad Auschwitz appena sedicenne, furono ritrovati a Lodz dalla sorella e conservati per cinquant’anni prima di venire pubblicati, così finalmente dando un seguito a quanto scritto ne “L’anima insanguinata di Litzmannstadt”: “vorrei trascinare in questa storia, con dolcezza, il lettore e fargli conoscere, anche se parzialmente, questo universo, in cui tragedia e commedia si mescolano” (pp.27). Un mescolarsi di fantasia – o meglio: di verosimile – e di verità, di letteratura e di testimonianza che, a quanto pare, fino ad ora la storiografia italiana, a differenza di quella europea, ha sostanzialmente ignorato. Secondo Frediano Sessi, il curatore e traduttore dell’opera, Cytrin, nonostante la giovane età, è riuscito a “dare voce alle energie vitali di una comunità destinata allo sterminio e alla scomparsa totale”. Un giudizio positivo anche dal lato più strettamente letterario (“la sua scrittura di tredicenne dimostra una grande e insieme terribile maturità […] la sua lucidità e fermezza stupiscono”) ma che, secondo noi, a fronte di manoscritti incompleti non potrà che essere parziale, non fosse altro che lo stesso Cytryn, entusiasta e instancabile scrittore, era consapevole dei propri limiti, di dover maturare ancora: “Dato che i nostri talenti sono ancora chiusi in un germoglio, dobbiamo dare vita a un’atmosfera che plasmi il nostro spirito e non si limiti ad inutili chiacchiere” (pp.177). Il lettore potrà cogliere una sintassi per lo più priva di incertezze, con qualche passaggio troppo enfatico, magari un eccesso di interiezioni, ma sopratutto pagine in cui convivono tragedia ed un certo umorismo: un elemento tipicamente ebraico, interpretabile come capacità di saper ridere della precarietà, delle proprie disgrazie, per poi giungere ad una sorta di effetto catartico.
Su tutto domina l’ossessione per la mancanza di cibo, causa di malattie e inedia, che rappresenta forse il tema principale e filo rosso tra le pagine autobiografiche e i racconti, comunque costruiti sulla base di esperienze personali e sull’osservazione di una società allo stremo che convive sempre più con la morte e il fetore della putrefazione. Si pensi a “Storia vera del ghetto di Litzmannstadt”, racconto su una madre che non seppellisce il figlio pur di ricevere sostentamento, ma che poi finisce per perdere anche l’altra figlia: per volere dello stesso Cytryn rimane senza risposta la domanda se davvero l’egoismo sia il motore principale della vicenda. Oppure pensiamo a “Srul Pakul e Jojine Plicer”, a “Il babà al caffè”, fatto in realtà con le patate, che “ha fatto la sua apparizione nelle vetrine dei negozi e ha cominciato a essere venduto come un prodotto di lusso nella pasticceria del ghetto” (pp.137). Tragicomica la fame di “Il cane contrabbandiere” dove leggiamo dell’inseguimento di massa ad un cane capitato, suo malgrado, nel ghetto e con un pezzo di carne tra i denti: “In un angolo dell’ufficio, il pezzo di carne rossa, coraggiosamente estratto dalla bocca del cane, sfida gli impiegati. Passata l’emozione, uno di loro se ne appropria avidamente e lo avvolge in un foglio di carta. ‘Avrai la possibilità di prepararti un pranzo reale con questo ticket di natura!’ si congratula con lui un collega invidioso, mentre il fortunato non sta più nella pelle” (pp.143). La maturità di Cytryn la possiamo cogliere anche nel giudizio sospeso, non definitivo, nei confronti del dittatore del ghetto, odiato da gran parte della popolazione, quel Chaim Mordechai Rumkowski che per lunghi anni è stato considerato soltanto un collaboratore dei nazisti; e che compare nel racconto “Josek il furbo”, senza evidenziare esplicitamente il meccanismo che obbligava le vittime a trasformarsi in carnefici. Carnefici che però Abram Cytryn conobbe personalmente da lì a poco: nel 1944, una volta liquidato il ghetto, venne deportato con tutta la famiglia ad Auschwitz e lì morì pochi giorni dopo il suo arrivo.
Edizione esaminata e brevi note
Abram Cytryn, nato a Lodz nel 1927, morì ad Auschwitz nel 1944. Dalla sorella Lucie (unica sopravvissuta al lager) sappiamo che, già da bambino, scriveva racconti e poesie «dalla mattina alla sera». La parte di quest’opera letteraria giunta fino a noi è conservata in ventiquattro taccuini presso il Centro Simon Wiesenthal di Los Angeles.
Abram Cytryn,“Racconti dal ghetto di Lodz”, Marsilio (collana “Gli specchi”), Venezia 2016, pp. 216. Traduzione di Frediano Sessi.
Luca Menichetti. Lankelot, febbraio 2016
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