A Palermo, al centro dell’Albergheria, tra le abbanniate dei mercanti di Ballarò e il campanile di Santa Chiara, c’è la piazzetta delle Sette Fate. Tutti conoscono la leggenda: “la notti cci vinìanu sette donni di fora, tutti una cchiu bedda di ‘n’àutra. ‘Sti donni si purtavanu quarchi omu o puramenti quarchi fimmina chi cci parìa a iddi, e cci facianu vidiri cosi mai visti: balli, sònura, cummiti, cosi granni. E vonnu diri puru ca si li purtavanu supra mari, fora fora, e li facianu caminari supra l’acqua senza vagnàrisi. Ogni notti faciànu ‘stu magisteriu, e poi la matina spiriànu e un si nni parrava cchiu“. Sette femmine, una più bella dell’altra, appaiono di notte e rapiscono le persone. Fanno vedere loro meraviglie d’ogni genere ma, dopo questa magia, al mattino spariscono e non si vedono più. Anche il piccolo Mario Mancuso conosce la storia delle Sette Fate, gliela racconta spesso zia Ninetta, l’unica della famiglia sopravvissuta al bombardamento di Palermo del 1943. Zia Ninetta cresce ed accudisce il nipotino rimasto orfano a soli tre anni ma per lei, bionda e formosa come un’attrice del cinema, la passione e l’amore contano più di tutto. Persino più di suo nipote. Per questo, quando Mario ha solo tredici anni, zia Ninetta sparisce abbandonandolo al suo destino. “Di lei rimasero solo una spazzola piena di capelli che sembrava il nido di una rondine e un mozzicone di rossetto“.
A tredici anni Mario si ritrova solo al mondo e diventa grande di colpo. Lascia la scuola e gironzola tutto il giorno per il quartiere. Si fa amico di due ragazzini come lui crescendo libero e senza regole. L’infanzia finisce e bisogna capire fin da subito quale strada percorrere. “Mario e i suoi amici si trovarono presto di fronte a un bivio: o sbirro o mafioso. Aranciu Pilusu e Taccitedda si misero al servizio del potente Don Ciccio Rizzo e cominciarono a smerciare sigarette di contrabbando. Mario, che per sua natura non aveva alcuna inclinazione alla prepotenza, scelse di fare il carabiniere“. Nel quartiere della Giudecca, invece, abita Melina Scimeca, “una ragazza bella e infelice a causa dei suoi spigolosi genitori“. In maniera piuttosto prevedibile Mario e Melina si incontrano. Il resto accade fin troppo in fretta: un matrimonio da celebrare prima di iniziare a prestare servizio presso la caserma Podgora di Roma. Mario parte poco dopo la cerimonia con Melina che lo osserva dal binario: “Mario dal finestrino la salutò con un cenno del capo e il dito indice davanti alla bocca. “Muta!” voleva dire, altrimenti mi buttano fuori e pure a te toccherà mangiare pane e sputazza“.
Nostalgia di una madre che non ricorda neppure. Nostalgia di una zia affettuosa ma sparita senza una parola. Nostalgia di una moglie che non ha fatto nemmeno in tempo a sfiorare. Il cuore di Mario si scioglie di nostalgie. A Roma non è facile. Lui, secco come un chiodo, sembra deperire ancora di più. Tornare a casa non è possibile e non può parlare con nessuno di quel magone che gli spezza continuamente il respiro. Melina, rimasta a Palermo, è una sposa sedicenne solitaria e diffidente. Resta per lo più chiusa in casa e sogna di possedere quello che non ha mai avuto: il materasso nuovo, la televisione e pure la lavatrice, un giorno. Nella piazzetta delle Sette Fate tutti le vogliono bene anche coloro che, in quegli anni, cominciano ad arrivare dall’Africa e dal Bangladesh. “Melina non si impensierì per quei musi neri, che si aggiravano disorientati nel quartiere. La tolleranza era una virtù cardine insieme alla solidarietà e alla riservatezza“. Siamo più o meno tra la fine degli anni ’50 e l’inizio dei ’60, la storia di un Paese in fase di crescita confusa fa da sfondo alle semplici vicende di vita dei personaggi di “Cortile nostalgia”.
La storia familiare di Mario e Melina è l’impalcatura che regge il romanzo di Giuseppina Torregrossa. E’ il nucleo dal quale si dipana una vicenda che, mano a mano, diviene più corale e complessa poiché nella storia entrano a far parte molte altre figure: da don Gaetano a za’ Enza, dal maresciallo Avella alla piccola Maruzza, da Mamma Africa a suor Antonella, da Aldo Moro allo straniero Roton. Lo scrivere della Torregrossa è spesso una mistura meticcia di italiano e siculo, un dettaglio nient’affatto originale che ha comunque il potere di trasportare il lettore in un contesto autenticamente popolare e vicino ai personaggi. La storia d’amore imperfetta e non riuscita di Mario e Melina rimane la solida nota stonata che rafforza e dà efficacia a tutto il narrato. La mancanza, per l’appunto, di un epilogo necessariamente felice del rapporto sentimentale ed umano tra i protagonisti rende più verosimile e genuina l’intera vicenda. Poiché in certe amarezze, in certe intime sofferenze, in tante parole lasciate a macerare nel silenzio, in rapporti d’amore e familiari incompiuti e sghembi è possibile intravedere la reale consistenza del vivere fatto di conflitti, chiusure, ascolti mancati e intendimenti difettosi.
Edizione esaminata e brevi note
Giuseppina Torregrossa è nata a Palermo nel 1956. Ha lavorato per più di vent’anni come ginecologa presso la clinica ostetrica del policlinico Umberto I di Roma ed ha sempre vissuto tra la capitale e la Sicilia. Nel 2007 ha pubblicato il suo primo romanzo, “L’assaggiatrice”. Nel 2008 grazie al monologo teatrale “Adele” ha vinto il premio opera prima “Donne e teatro”. Nel 2013 è finalista del premio Fedeli e nel 2015 vince il Premio letterario internazionale Nino Martoglio e il premio Baccante. Le opere della Torregrossa: “Il conto delle minne” Mondadori, 2009; “Manna e miele, ferro e fuoco” Mondadori, 2011; “Panza e prisenza” Mondadori, 2012; “La miscela segreta di casa Olivares” Mondadori, 2013; “A Santiago con Celeste” Nottetempo, 2014; “Il figlio maschio” Rizzoli, 2015; “Cortile nostalgia” Rizzoli, 2017.
Giuseppina Torregrossa, “Cortile nostalgia”, Rizzoli, Milano, 2017.
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