Franco Ferrarotti che scrive di Puccini non deve affatto sorprendere: la sociologia della musica, come campo specifico della disciplina sociologica, ha avuto in Schütz e Weber i primi illustri studiosi; ed in tempi più recenti Theodor W. Adorno ha dedicato molti suoi scritti alla musica classica, al jazz ed a quelle che considerava mere musiche di consumo.“Musica e società” sembra proprio voler replicare ad Adorno in merito al nostro Puccini. Ferrarotti, che già aveva pubblicato altri testi di argomento musica, la prende un po’ alla lontana partendo da Mozart, argomentando la transizione dal melodramma al sinfonismo classico, per poi confutare le feroci critiche di Adorno su Puccini e la sua drastica distinzione tra arte superiore ed arte inferiore. Ricordiamo che secondo Adorno c’è una musica che si pone autonomamente come creazione superiore, non volgare, prodotto fruibile da pochi eletti, contrapposta ad una musica plebea. Partendo da questo assunto, il filosofo e musicologo tedesco ci ha descritto Puccini, con le sue “sdolcinature stucchevoli”, proprio come uno dei più grandi banalizzatori della musica nell’epoca della cultura di massa. Ferrarotti da subito fa capire come la pensa citando le parole di Adorno come “il lamento di un elitarismo in agonia, che ha fatto il suo tempo. Nella società di oggi si dovranno trovare e far valere nuovi criteri di eccellenza”.
Elitarismo o meno, certo è che filosofi come Nietzsche non ci sono andati leggeri nel tacciare il melodramma italiano come “edulcorata e invertebrata forma di pseudocultura popolare”, al quale poi Adorno, con altre argomentazioni, si è poi affiancato nel distruggere la reputazione di Puccini. Come del resto altri noti critici, molti dei quali in anni più recenti hanno fatto ammenda, lo hanno raccontato come abile mistificatore di passioncelle piccolo-borghesi, affetto da un crepuscolarismo gozzaniano tale da regalarci non altro che stucchevoli sdolcinature ad uso di una plebe incolta. Assolutamente speculare l’opinione di Ferrarotti che rifiuta l’idea di Puccini “corrivo banalizzatore della musica a favore di plebi affamate di eccitazioni emotive a buon mercato”. Anzi – azzardando – considera il compositore toscano come continuatore della lezione mozartiana: Mozart avrebbe in qualche modo mediato tra melodramma italiano e sinfonismo classico; Puccini, in questo spesso travisato, a sua volta avrebbe mediato tra l’opera classica e la musica “leggera” o popolare.
Ferrarotti ammette che nell’opera pucciniana vi siano alcuni cedimenti al cattivo gusto; ma nel complesso vi riscontra un intimismo che tocca nervi sensibili, ed una forma originale che esprime “verità profondamente sofferte, sentimenti umani autentici, universali, senza cedere ala moda dell’esotismo volgare”. Il rifiuto di questa presunta banalizzazione è anche nelle pagine che mettono il compositore lucchese in rapporto con i suoi tempi e poi con Verdi, il più grande di tutti. Si ricorda come il tardo Verdi e Puccini siano stati sempre aperti alle novità: “Nel Falstaff soprattutto e nelle maggiori opere pucciniane si avvertono modalità e dissonanze che anticipano e, a tratti, chiaramente annunciano la rivoluzione viennese di Arnold Schoenberg e la sua dodecafonia, intesa a riconoscere a tutti i suoni uguale dignità”. Viene quindi citata una lettera del compositore austriaco inviata a Casella poco dopo la scomparsa di Puccini: “La sua morte mi ha recato un profondo dolore. Non avrei mai creduto di non dover più rivedere questo così grande uomo. E sono rimasto orgoglioso di aver suscitato il suo interesse”. E poi ancora le parole di Riccardo Chailly secondo il quale, con Turandot, si era arrivati ad un passo dalla dodecafonia. Alla replica “ma non è il musicista del cuore?” Chailly insiste: “Ad un ascolto superficiale si. Ed è vero che tocca i sentimenti forti, ma le melodia nascondono insidie nelle costruzioni musicali ed armoniche. Negli schizzi del finale di Turandot, riscritto da Berio, si scoprì una serie dodecafonica scritta da Puccini. Non dimentichiamoci che volle ascoltare il Pierrot Lunaire di Schoenberg”.
Malgrado si colga la passione di Ferrarotti per le opere del compositore lucchese, non credo proprio che col suo libretto si possa archiviare facilmente una discussione che dura da decenni; non fosse altro che è sempre molto ben conosciuta la lezione di Adorno, qui messo nel mazzo dei “musicologi intellettualmente raffinati, per non dire culturalmente boriosi”, nei quali “agisce e pesa il noto pregiudizio contro la massa, ritenuta per definizione incolta, rozza, istintiva, essenzialmente animalesca”. Momenti nei quali viene da pensare all’Adorno ispiratore della “nuova sinistra” ed alla sua particolare idea di marxismo. Ma questa è proprio altra storia. O altra musica.
Edizione esaminata e brevi note
Franco Ferrarotti (Palazzolo Vercellese, 1926) è professore emerito di sociologia all’Università di Roma “La Sapienza”; vincitore del primo concorso bandito in Italia per questa materia; già responsabile della divisione “Facteurs sociaux” all’OECE, ora OCSE, a Parigi; fondatore con Nicola Abbagnano dei Quaderni di sociologia nel 1951; dal 1967 dirige La Critica sociologica; nel 1978 nominato “directeur d’études” alla Maison des Sciences de l’Homme a Parigi; insignito del premio per la carriera dall’Accademia nazionale dei Lincei il 20 giugno 2001; nominato Cavaliere di Gran Croce l’11 novembre 2005 dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi. Tra alcune sue opere possiamo citare: L’arte nella società (2007), Il senso della sociologia (2008), Fondi di bottiglia (2008), Lettere al Presidente (2009), L’immaginario collettivo americano (2010).
Franco Ferrarotti, Musica e società. Il caso Puccini (con scritti di Stefano Sabene e Carlo Frajese), Solfanelli, Chieti 2011
Luca Menichetti. Lankelot, aprile 2012
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