Oliva Gianni

Foibe. Le stragi negate degli italiani della Venezia Giulia e dell’Istria

Pubblicato il: 22 Settembre 2006

“A quasi sessant’anni dagli avvenimenti, le foibe e gli infoibati restano ancora una strage negata, esclusa dalla coscienza collettiva della nazione, una tragedia che emerge di quando in quando per essere oggetto assai più di polemiche e di contrapposte strumentalizzazione che di ricerca scientifica e di memoria comune”. Così Gianni Oliva nell’introduzione al suo libro “Foibe. Le stragi negate degli italiani della Venezia Giulia e dell’Istria”: l’autore, malgrado l’estrema complessità delle vicende e dei drammi che si sono sviluppati nel XX secolo al confine orientale dell’Italia, in meno di 200 pagine, riesce a sintetizzare con efficacia il contesto nazionale e politico che ha portato prima ai tragici fatti del 1943-45 e poi alla loro parziale rimozione dalla memoria collettiva. Le foibe, quelle fenditure profonde anche molte decine di metri, tipiche del paesaggio carsico, in cui alla fine della Seconda Guerra Mondiale sono stati gettati i cadaveri di migliaia di cittadini italiani, eliminati per motivi politici dall’esercito di liberazione nazionale del Maresciallo Tito, non è un caso siano state oggetto di interpretazioni di comodo e politicamente contrapposte: consideriamo, da un lato, la politica di italianizzazione forzata, perseguita durante il Ventennio nell’area del confine orientale, con la sistematica snazionalizzazione della comunità slovena croata; dall’altro la politica espansionistica di Tito e la volontà di annettere alla Jugoslavia comunista anche Trieste e Gorizia.

L’apice della violenza si ebbe nel maggio – giugno 1945 quando i partigiani di Tito occuparono Trieste, prima dell’arrivo degli anglo-americani: qui si scatenò una repressione senza freni in cui la volontà di epurare gli esponenti dello sconfitto regime fascista si mescolò con risentimenti nazionali, come una anticipazione della più note e recenti pulizie etniche. Una repressione che, secondo la versione ufficiale, riguardò solo i criminali di guerra, ma che di fatto colpì in modo indiscriminato tutti coloro che erano contrari all’annessione di quelle terre alla Jugoslavia; anche chi era stato oppositore del regime fascista. Un disegno lucido che volle dire l’eliminazione di tutte le persone che potevano guidare un movimento contrario all’annessione, impedire che si affermassero delle autorità italiane antifasciste, capaci di legittimarsi davanti agli alleati angloamericani, ed anche colpire, all’interno dello stesso Partito Comunista Italiano, coloro che si dimostravano sensibili al problema nazionale.Tutto questo si intrecciava con ormai sedimentati antagonismi nazionali, contrasti all’interno del movimento partigiano (di pochi mesi prima la strage di Porzus ai danni della Brigata Osoppo), il ricordo delle stragi compiute in Istria subito dopo l’armistizio. Avvenimenti tragici – superfluo rimarcarlo – che però non sono entrati a far parte del patrimonio collettivo della nazione. Oliva ci spiega i motivi di questa sorta di “silenzio di Stato”. Le ragioni sono molteplici. Nel 1948, quando è rottura tra Tito e Stalin, l’occidente guarda con altri occhi verso il governo di Belgrado: viene meno l’interesse a far chiarezza sulle migliaia di cittadini italiani scomparsi; di conseguenza la versione del carattere antifascista delle esecuzioni verrà accettata in nome di una superiore realpolitik.

Per il governo italiano la situazione della Venezia Giulia fu un terreno minato, vista la particolare situazione amministrativa a seguito del Trattato di Parigi; per di più già nel gennaio del 1945 la Jugoslavia aveva chiesto l’estradizione di centinaia di ufficiali e soldati accusati di crimini di guerra: un atteggiamento “distratto” rispetto le vicende degli infoibati divenne una pedina si scambio per insabbiare le richieste di Belgrado. Per finire il P.C.I.: il partito non aveva nessun interesse ad evidenziare le contraddizioni che lo vedevano stretto tra il suo ruolo di partito nazionale, la sua vocazione internazionalistica e i legami con Mosca; rinvangare le vicende delle foibe, delle esecuzioni sommarie nei campi di concentramento, voleva dire mettere allo scoperto le posizioni di equilibrista che in quell’occasione (e non solo) furono proprie di Palmiro Togliatti. Gianni Oliva, oltre a dimostrare una scrittura scorrevole, ben lontana da certi indigeribili ed illeggibili pipponi, caratteristici dei nostri accademici, ha il merito di inquadrare le vicende della repressione titoista (nella realtà vi furono più vittime nei campi di prigionia jugoslavi che a causa degli infoibamenti) a partire dall’aggressiva politica di snazionalizzazione del regime fascista (in questo quadro si inserisce l’incendio dell’Hotel Balkan). Questa la struttura del libro, di per sé molto eloquente:

– I – I quaranta giorni di Trieste (“La guerra si trascina dentro la pace” , – Basovizza: tra fucilazioni e infoibamenti, – Borovnica: la deportazione nei campi di concentramento, – La quantificazione delle vittime)
– II – Il “fascismo di confine” (L’incendio dell’Hotel Balkan, – La politica di snazionalizzazione del regime, – 1941, l’invasione della Jugoslavia, – L’occupazione militare italiana)
– III – Le foibe istriane dell’autunno 1943 (8 settembre: il crollo dell’esercito italiano nella Venezia Giulia, – L’Istria tra contropotere partigiano e “jacquerie” contadina, – Processi farsa, esecuzioni di gruppo, – La foiba come rovesciamento dei valori)
– IV – Il litorale adriatico e la Risiera di San Sabba (“Operazione nubifragio”: la Wehrmacht occupa l’Istria, – Friedrich Rainer, il nazista venuto dalla Corinzia, – La Risiera, campo di transito e di sterminio, – Il collaborazionismo municipale, – Le foibe istriane e la propaganda di Salò)
– V – Tra tedeschi e titoisti: la lotta di liberazione nella Venezia Giulia (Alle origini del movimento di liberazione, – La strategia delle annessioni del Maresciallo Tito, – La tragedia del battaglione “Giovanni Zol”, – Anton Vratusa e gli accordi del CLNAI, – Dalle dichiarazioni congiunte alla crisi, – Togliatti di fronte alle rivendicazioni jugoslave)
– VI – La “corsa per Trieste” (La rottura dell’unità antifascista a Trieste, – La strage delle malghe di Porzus, – Le strategie degli alleati per la Venezia Giulia)
– VII – Epilogo: dalle foibe alla “linea Morgan” (La IV Armata jugoslava e l'”Operazione Trieste”, – Jugoslavi e neozelandesi, due eserciti sovrapposti a Trieste e Gorizia, – Tra coprifuoco e arresti: il modello dell’amministrazione jugoslava, – La spartizione del territorio secondo la “linea Morgan”, – Le foibe tra memoria e rimozione).

Ampio risalto viene dato alle cosiddette “foibe istriane” dell’autunno 1943, in cui contestualmente all’insediamento delle nuove autorità (ricordiamo che siamo all’indomani dell’armistizio e prima dell’occupazione germanica), la combinazione di richiami nazionalistici, la strategia di Tito, che alimentò l’equazione italiano-padrone-fascista, diede la stura ad incredibili violenze nei confronti della popolazione italiana, in cui i connotati politici della rivolta si saldarono a quelli sociali e ad una volontà di “pulizia etnica”.

Un caso emblematico tra quelli citati in “Foibe”: Norma Cosetto, una studentessa universitaria ventiquattrenne, nativa di Santa Domenica di Visnada, il cui padre era stato segretario del fascio locale fu arrestata da un gruppo di titoisti e chiusa nella caserma di Visignano, ora adibita a prigione: nessuna imputazione nei suoi confronti, se non la colpa di essere figlia di un piccolo gerarca locale. Dopo una settimana di torture e stupri, fu condotta, insieme ad altri venticinque prigionieri sulle pendici del monte Croce: qui furono tutti fucilati e i corpi fatti precipitare nella foiba di Villa Suriani; due mesi dopo, quando i cadaveri furono riportati alla luce, si scoprì che a Norma Cosetto erano stati recisi i seni e le era stato conficcato un pezzo di legno nei genitali. Le pagine di “Foibe” proseguono nella narrazione di vicende simili, sulla base di ampia documentazione.
Pagine che confermano ancora una volta come la combinazione di arresti illegali, privi di motivazioni strettamente politiche, gli stupri e le seguenti uccisioni, già nell’autunno ’43 fossero riconducibili a logiche diverse: in parte nate dal furore di una “jacquerie contadina”, dalla criminalità comune che vide un’eccellente occasione per avere il campo libero, da vendette a lungo covate nei confronti del “fascismo di confine”, ma anche frutto di un lucido progetto politico che voleva fare tabula rasa dell’etnia italiana.

“Logiche” che evidentemente fanno ancora discutere, per usare un eufemismo, se è vero che anche il nostro saggio è stato oggetto di velenosi strali. Faccio presente che Gianni Oliva, autore di “Le tre Italie del 1943. Chi ha veramente combattuto la guerra civile”, “Profughi – Dalle foibe all’esodo: la tragedia degli italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia”, “I vinti e i liberati. Settembre 1943 – 25 aprile 1945”, “Esercito, paese e movimento operaio”, pur dimostrando in questo libro un lodevole distacco proprio dello studioso e non del militante, è uomo di sinistra, già assessore in quota DS con la giunta di Mercedes Bresso, adesso vicepresidente della Provincia di Torino, con deleghe all’istruzione, alla formazione professionale, ai rapporti con l’Università. Non certo l’identikit di un revisionista, di un Faurisson di casa nostra. Eppure, nonostante tutto, anche per “Foibe” pare si sia ricalcato con lo stampino, seppure con tono minore, quanto è accaduto all’uscita de “Il sangue dei vinti” di Giampaolo Pansa (altro autore di sinistra) e soprattutto dell’imprescindibile “Libro nero del comunismo”. Questo malgrado Oliva non si sia limitato alla descrizione degli infoibamenti del ’43-’45, le cui pagine, nell’economia del volume, risultano fin troppo scarne, ma abbia ampliato con intelligenza l’orizzonte dell’analisi storica fin dagli anni ’20, alla Risiera di San Sabba, spesso e volentieri dimenticata da chi ha usato l’argomento foibe per rifarsi una verginità politica; senza perciò prefigurare alcuna assoluzione di sorta per i protagonisti di quegli anni, ammesso che uno storico possa farsi giudice.

Queste polemiche, non si capisce bene imbastite su quali basi documentarie, se non motivate da passioni ideologiche ben riconoscibili, possono far scaturire altro genere di considerazioni che di storiografico hanno, o dovrebbero avere, ben poco: fermo restando che parlare di destra e di sinistra non ha alcun senso, se non si specifica quale destra e quale sinistra, è chiaro come vi siano dei lettori, o potenziali lettori, la cui visione del mondo è tale da rendere superflua qualsiasi ricerca storica; ovvero il mito e l’ideologia che sopravanza la realtà dei fatti. L’interpretazione, o per meglio dire la presa di coscienza, di quanto è accaduto negli anni tra il ’43 e il ’45, evidentemente vive ancora di schemi ideologici duri a morire (accanto a tante furberie di basso cabotaggio); anche se l’impressione del tutto personale, nel leggere alcune delle contestazioni rivolte ai testi citati ed in particolare a “Foibe”, è che i sedicenti antifascisti, tanto indignati per l’affronto (??) perpetrato ai danni della Resistenza, alla sua purezza e sacralità, di quei libri non ne abbiano letto manco una riga: ovvero come polemizzare per sentito dire, da parte di chi è più paragnosta che lettore; in altri termini l’ennesimo esempio di come in tanti vi sia l’eterna propensione a confondere la visione delle cose con la propria visione del mondo. Quanto mai pertinente, a conclusione del saggio, una citazione da Francois Furet a proposito della Rivoluzione Francese, ma perfetta anche per il nostro argomento: “Il modo migliore per non capire il passato è esaltarlo o demonizzarlo”.

Edizione esaminata e brevi note

Gianni Oliva – “Foibe. Le stragi negate degli italiani della Venezia Giulia e dell’Istria” – Oscar “Storia” – ed- 2003 – euro 8,80

Recensione già pubblicata su ciao.it il 27 luglio 2006

Luca Menichetti. Lankelot, settembre 2006