Durante il mio soggiorno in Senegal capitò una sera in cui fummo invitati a cena a casa della nostra domestica Marie: trentacinque anni, sposata con sei figli e ciononostante un fisico ancora longilineo ed un viso angelico, solo un seno debordante tradisce le numerose gravidanze. Maria abita di fianco a sua madre, Thèrese, la quale ha lavorato presso la stessa ONG per vent’anni prima di andare in pensione e lasciare il posto alla figlia.
Fu proprio da lei che passammo la serata: un’arzilla signora sulla sessantina, asciutta e con la tipica camminata ondeggiante delle signore senegalesi. Da giovane doveva assomigliare molto a Marie, purtroppo però la vecchiaia ed una vita di duro lavoro non sono stati gentili con lei. Le lodi sulla sua cucina, diventata negli anni un miscuglio di senegalese ed italiana, erano arrivate fino a noi e il pollo con insalata e patatine che mangiammo quella sera fu all’altezza delle aspettative. Il marito di Thèrese si chiama Malick: alto, magro, di poche parole, ma di grande gentilezza, porta sempre un paio di grandi occhiali da vista perennemente storti e di recente si è lanciato nel business dei polli, con ottimi risultati vista l’impressionante stazza che hanno raggiunto.
Quella sera era presente pure Madiop, fratello minore di Marie: ha ventitre anni, dal padre ha preso l’altezza e dalla madre i lineamenti del viso. Studia geografia a Dakar ma la sua grande passione è il basket e infatti fa parte della squadra universitaria. Pure io ho praticato il basket durante gli ultimi due anni delle superiori, soprattutto perché mi attirava, ma anche perché ero stufo di quelli che mi chiedevano come mai non ci giocavo visto che ero così alto.
Scoprimmo di avere questa passione in comune e così Madiop mi propose di andare ad allenarmi con lui il giorno seguente, insieme alla squadra della scuola del quartiere. Io fui ben contento di accettare e fu così che il pomeriggio successivo, dopo essermi perso un paio di volte e aver chiesto indicazioni, arrivai alla scuola superiore di Mbour Serer: Si tratta di una tipica scuola senegalese con lunghi edifici bassi dove ci sono le classi e che sono disposti intorno ad un grande cortile interno al cui centro ci sono un campo da calcetto ed uno di basket: quest’ultimo è fatto di cemento, in alcuni punti presenta delle irregolarità ma è ancora in buone condizioni, i tabelloni dei canestri sono di legno e la struttura è in ferro.
Quando arrivai Madiop era già lì e mi presentò al coach Boubacar: professore della scuola e responsabile delle squadre di basket, visto che su quel campetto si allenano ragazzi e ragazze dai sei ai diciassette anni. Coach Boubacar ha il tipico fisico da pivot: alto, ben piazzato, gambe magre rispetto al resto del corpo, mani grandi e robuste. Come ogni professore di educazione fisica che si rispetti porta sempre pantaloni della tuta e magliette sportive. Mi disse che loro si allenano ogni mercoledì e sabato pomeriggio e che io ero più che benvenuto se volevo partecipare.
Da allora il mercoledì pomeriggio, e a volte pure il sabato, sono diventati i miei giorni di allenamento. Andai in missione al mercato per procurarmi un paio di scarpe da basket usate che in Italia avrei probabilmente pagato il triplo e, dopo qualche mese, tutto il quartiere sapeva che c’era un toubab (il nome con cui i senegalesi chiamano i bianchi) che si allenava regolarmente con la squadra.
Gli studenti pagano una quota annuale per allenarsi e partecipano ai campionati con le altre scuole. Il coach non mi ha mai chiesto di pagare la quota, invece mi ha fatto capire che gli sarebbero venuti utili alcuni materiali e così mi è sembrato corretto procurargli delle pettorine numerate per gli allenamenti. Ha molto apprezzato l’idea, ma credo che ora le usino per le partite di campionato più che per gli allenamenti.
Sullo stesso campo si allenano sia i grandi che i piccoli e così può benissimo capitare che ci siano fino anche a 50-60 giocatori contemporaneamente. Il coach, a volte aiutato da qualcuno dei ragazzi più grandi, coordina tutti: gli studenti sono divisi in tre gruppi a seconda dell’età e fanno esercizi nelle due metà del campo. A volte i più piccoli fanno pratica di palleggio e passaggi a bordo campo. Quando viene il momento di giocare a tutto campo si fa molto democraticamente a turno, a partire dai più piccoli, fino ai più grandi. Può succedere, quando si avvicina una partita, che il coach faccia giocare solo le ragazze tra di loro, così da poter impostare meglio la squadra.
Non sono mai stato un fuoriclasse, credo di aver iniziato troppo tardi, tuttavia ho sempre cercato di essere costante e d’impegnarmi al massimo e qualche progresso credo di averlo fatto in questi mesi. Spesso vado anche a cor
rere quindi a livello di fiato non sto messo male, il problema principale è la palese differenza di rapidità ed elevazione tra me e questi baldi adolescenti senegalesi. Pur essendo alto un metro e novantaquattro non sono mai riuscito a schiacciare a canestro, tra di loro invece ce ne sono alcuni che sono più bassi di me di dieci centimetri ma saltano come grilli. Questo ha inoltre portato ad una serie di imbarazzanti stoppate (una delle cose peggiori da subire quando si gioca a basket) a mio danno.
In generale ho collezionato una buona dose di papere, ogni tanto però sono pure riuscito a tirar fuori qualche bella giocata, specialmente sotto canestro, la posizione dove mi trovo più a mio agio. Un lavoro ingrato quello del pivot, nella maggior parte dei casi è lui che deve finalizzare l’azione, lavorando in uno spazio ristretto e sovraffollato di avversari. Se fa canestro è tutto normale, così da vicino è difficile sbagliare, se invece la palla non entra allora deve subirsi i commenti e le occhiatacce degli altri compagni che spesso e volentieri se ne stanno comodamente fuori area in attesa della palla.
Con l’andare dei mesi ho cominciato a conoscere i miei compagni soprattutto grazie al loro stile di gioco, la comunicazione tra di noi è un po’ difficile, non tutti loro parlano francese e il mio wolof è vicino allo zero.
Sono una frana con i nomi e quindi ho dato loro dei soprannomi, tra quelli che mi stanno più simpatici c’è maglietta arancione: è tra i
più alti della squadra, abbastanza magro, bocca grande e capello lungo per gli standard locali. Vista l’altezza gioca spesso sotto canestro ma si capisce che ha un’anima da ala, resta spesso fuori dall’area dei tre punti e ha un tiro molto preciso. In generale è uno dei più bravi, ma al contrario di molti suoi compagni lui pensa quando ha la palla in mano, non si limita ad entrare in area con tutta la forza che il suo fisico gli permette. Lo fa solo se la situazione è propizia ma quando non lo è passa la palla, fa giocare gli altri e stimola il gioco.
Al lato opposto della mia personale scala di gradimento c’è grugnoduro: è un po’ più basso di maglietta arancione ma è più muscoloso. Il soprannome viene dalla sua perenne espressione imbronciata. Quando s’impossessa della palla, nella maggior parte dei casi prende la rincorsa e si lancia verso il canestro, noncurante dei difensori e soprattutto dei compagni smarcati. In sua difesa va detto che la maggior parte delle volte riesce a fare canestro, ciò non toglie che avrebbe bisogno di qualcuno un po’ più bravo che gli facesse capire che questa non è una strategia molto efficace e che nella squadra ci sono altre quattro persone.
Tra i più bassi della squadra spicca smilzo, non ha più di quindici anni, ha ancora un viso da bambino ma possiede un buon controllo di palla e soprattutto un’ottima visione del gioco. Anche lui ha la tendenza alle entrate a testa bassa come grugnoduro ma solo quando vede lo spazio giusto, altrimenti preferisce sviluppare l’azione o crearsi lo spazio per tirare dalla distanza.
Se la tendenza alla troppa sicurezza e al possesso palla è tipica dei ragazzi, le ragazze della squadra invece si caratterizzano per una grande concretezza, pochi fronzoli e molta efficacia. L’esempio migliore è stanga, la più alta: non è molto veloce, parla poco e non spreca energie nell’esultare o nel lamentarsi per un fallo. Le piace giocare sotto canestro e fare il lavoro sporco, non ha ancora un grande controllo della palla e se marcata stretta tende a perderla. Tuttavia basta distrarsi un attimo e lei sfrutta al massimo l’occasione, muovendosi dritta verso il canestro senza perdere tempo.
C’è poi sbesola, che in dialetto veneto significa “mento”: una playmaker ormai fatta e finita dal mento particolarmente pronunciato e dai modi da maschiaccio. Quando è in campo non si fa scrupoli ad imporre la sua idea di gioco alla squadra e molto spesso si prende pure la responsabilità di concludere l’azione. Si atteggia un po’ da spaccona e per questo non mi sta molto simpatica, tuttavia ne riconosco la buona tecnica.
Altra figura di spicco tra le ragazze è Joana (uno dei pochi nomi che mi ricordo), anche lei segue un po’ le orme di sbesola, ma è ancora giovane ed è un po’ troppo bassa per giocare con i più grandi. Tuttavia ha già un’ottima capacità di tiro e di palleggio.
Quando non è a Dakar per le lezioni pure Madiop viene agli allenamenti e fa un po’ da vice-allenatore. Lui si vede proprio che gioca in una serie superiore e che ha iniziato da molto giovane. Nemmeno lui tuttavia ha perso del tutto la tendenza alle entrate a muso duro e dal momento che è alto quasi due metri non c’è quasi nessuno che possa fermarlo senza commettere fallo. La cosa più divertente sono gli urli che emette ogniqualvolta sbaglia una schiacciata o finisce a terra dopo un fallo.
Durante gli allenamenti il coach parla in wolof e questo limita un po’ la mia comprensione dei suoi metodi. Tuttavia molti dei termini che usa per indicare per esempio i falli o le tecniche sono francesi o inglesi e questo rende tutto più facile. Anche i ragazzi spesso usano parole inglesi, la palla per esempio è “ball” e anche il canestro viene chiamato “baskét”, con accento francese. La cosa più divertente sono gl’incitamenti: ”good job”, ossia “buon lavoro”, “nice boy” o “good boy” ossia “bene ragazzo” e in questo caso lo usano unisex, sia per i ragazzi che per le ragazze.
Se l’azione è particolarmente ben riuscita o qualcuno fa l’esercizio perfettamente al primo tentativo allora spesso scatta l’applauso, stessa cosa quando qualcuno finisce a terra e lo si vuole incoraggiare a rialzarsi per continuare. L’applauso scatta pure, e questo lo trovo molto bello, quando qualcuno sbaglia qualcosa e il coach lo rimprovera.
A fine allenamento ci si mette tutti in cerchio, uno dei grandi si posiziona al centro e guida lo stretching, alla fine poi ci si dà tutti il cinque e si ringrazia il coach.
Il mio allenamento del mercoledì è stata una preziosa valvola di sfogo che mi ha permesso di rispolverare uno sport che ho praticato meno di quanto avrei voluto, ma è stata soprattutto una grande occasione per entrare in contatto con la realtà di una squadra locale: vedere allenarsi sullo stesso campo ragazzi di tutte le età, alternandosi per dare la possibilità a tutti di migliorare, usare palloni ormai lisi e consumati, a volte pure riparati con ago e filo, dover stare attenti alle imperfezioni del campo per non perdere il palleggio, farsi stoppare da un quindicenne di venti centimetri più basso di me, sono state tutte preziose lezioni che porterò a casa con piacere e mi seguiranno nei prossimi campetti dove avrò occasione di giocare.
Francesco Ricapito Settembre 2017
Follow Us