Sorprende che il nome di Patricia Highsmith sia stato coinvolto in un’operazione editoriale dal sapore vagamente truffaldino; ma andiamo per ordine, non anticipiamo troppo, malgrado il rischio di svelare l’epilogo di un thriller non sussista affatto (proprio questa la fregatura cui è esposto l’ignaro lettore). La nostra scrittrice, a buon titolo autrice di culto, per usare un termine fin troppo abusato, nasce nel 1921 a Fort Worth, Texas, ma presto si trasferisce a New York. Una giovinezza difficile, con genitori divorziati, e che probabilmente influenzerà carattere e la sua predisposizione per vicende tutt’altro che idilliache. Il talento letterario di Patricia Highsmith, ma soprattutto il suo particolarissimo interesse per gli psicopatici, si rivelerà fin dal suo primo romanzo pubblicato, “Sconosciuti su un treno”, del 1950. La storia, che molti conosceranno grazie al film diretto da Hitchcock, “L’altro uomo” o “Delitto per delitto”, contiene in sé tutta l’umanità malata, e forse amata, che caratterizzerà i romanzi e racconti successivi: un architetto e un ricco possidente si incontrano su di un treno e decidono di scambiarsi gli omicidi dei rispettivi congiunti: “Alcune persone sarebbe meglio fossero morte, come tua moglie e mio padre, per esempio”. Del 1955 è “Il talento di Mr. Ripley” in cui esordisce il personaggio più celebre creato dalla sua penna: Tom Ripley, un serial killer truffatore e bisessuale, border line sadico ma anche capace di essere un marito tenerone; con questa strana figura di antieroe, perennemente impunito, più che mai sfumano i confini tra il normale e l’anormale. Piuttosto scontato che di un simile figuro il cinema ne abbia tratto ampia ispirazione: ricordiamo, tra gli altri, “L’amico americano” di Wenders, “Il talento di Mr. Ripley” di Minghella ed “Il gioco di Ripley”, diretto da Liliana Cavani.
Patricia Highsmith, questa grande dispensatrice di inquietudini, così aliena dal voler gratificare i suoi lettori di vicende in cui potesse trionfare una giustizia per così dire “convenzionale”, lei stessa non pare fosse persona ben inquadrabile e dal carattere dolce e disponibile: non mi riferisco tanto alla sua vita solitaria (dal 1964 si trasferì in Europa, tra Gran Bretagna, Francia e Svizzera, e poi nel 1988, sette anni prima della sua morte, in una sorta di eremo, nel villaggio ticinese di Tegna), alla sua idiosincrasia per interviste, vita mondana, quanto ad aspetti della sua personalità ancora controversi. Semi-alcolizzata e nello stesso tempo rigidissima nel darsi un metodo di lavoro, atteggiamenti “radical” col suo sostegno alla causa palestinese, ma pure ombre di quel razzismo ereditato dal natio Texas, e soprattutto (pare) un’omosessualità, mai ammessa pubblicamente (anzi risolutamente negata fino all’ultimo): è del 1952, un romanzo, “Carol”, pubblicato con lo pseudonimo di Clare Morgan, storia d’amore tra due donne, con finale “gaio” e felice, e presto diventato un classico della letteratura lesbica. Probabile che la stessa ambivalenza sessuale di Tom Ripley sia frutto di una qualche assimilazione tra vita e opera; da qui, in virtù di personali contraddizioni ed di un sentirsi “outsider”, il capovolgimento, non solo della struttura del cosiddetto romanzo giallo, ma anche del comune sentimento di giustizia e di quella che viene generalmente considerata la normalità di tutti i giorni. E’ proprio da questa banale quotidianità, che poi, in altri suoi romanzi, prendono campo vicende angoscianti e concretamente criminogene. Lo stesso sembra accadere in “Gente che bussa alla porta”, romanzo pubblicato nel 1983: la vicenda si apre in un contesto molto normale, quotidiano appunto, muta poi in vicenda drammatica, ma questa volta senza trascendere in quell’ “allucinante” peculiare dei suoi thriller.
Siamo negli anni ’70, a Chalmerston, un piccolo centro della provincia americana, dove vive la famiglia del diciassettenne Arthur Alderman. Il padre fa l’assicuratore: classico esponente della middle class wasp, è uomo intriso di un rigido senso morale, dal sapore molto calvinista, malgrado anche lui abbia qualche scheletro nell’armadio; poi c’è la madre, Lois, una casalinga particolarmente remissiva, sempre pronta ad assecondare i rigidi atteggiamenti del marito; Robbie, il fratello minore, un ragazzino quattordicenne introverso e con qualche problema caratteriale, scontroso e con scoppi di ira improvvisi e violenti; una nonna che vive defilata fuori città (anima “liberal” della famiglia). Arthur vive i primi pruriti adolescenziali con Maggie, ragazza tranquilla, figlia unica di una famiglia “moderna”. Fin qui tutto scorre pacifico, fin troppo nella norma. Poi Robbie si ammala gravemente per una tonsillite acuta; la famiglia, pregando, si stringe attorno al piccolo infermo e, dopo che il ragazzino sarà uscito dal tunnel della malattia, il padre, inizia a gridare al miracolo: la sua fede religiosa, adesso che “Dio ha ascoltato la mia preghiera”, si trasforma in qualcosa di maniacale, che va oltre il vivere la religione in maniera fervente ed impegnata Richard, che ha iniziato a frequentare una delle tante chiese riformate d’America, preda di ambigui fanatici, ora si fa del tutto condizionare da coloro che “bussano alla porta” (da qui il titolo) per comprare ed assimilare acriticamente opuscoli religiosi, giudica i fatti della vita come regali o castighi di Dio e pretende che tutta la famiglia si adegui al nuovo corso. L’intransigenza fondamentalista, se pur sopportata dalla moglie Lois, sarà motivo di un duro conflitto con Arthur, insofferente di fronte al nuovo atteggiamento del padre. Robbie, invece, anello debole della famiglia e protagonista del dramma finale (“la fede nella difesa della vita si trasforma in strumento di morte”) è soggiogato dai dogmi religiosi e dalle certezze del padre: perderà del tutto la testa quando scoprirà che anche il genitore non è immune da vizi e debolezze. In questo contesto “integralista”, Maggie, la fidanzatina diciassettenne di Arthur, si scopre incinta e vuole abortire, col pieno consenso dei suoi genitori; ma in una città così piccola le voci corrono e Richard, venuto a conoscenza della cosa, non sa come affrontare la situazione se non colpevolizzare la ragazza, e, disattendendo le richieste del figlio, rivelando al gruppo religioso che frequenta, quanto accaduto. Le maldestre pressioni del padre per impedire l’annunciato aborto sortiranno solo l’effetto di irritare i genitori di Maggie ed alienarsi ancor di più la stima del figlio. La vicenda familiare, con l’intervento fatale di Robbie, ragazzino disturbato e malconsigliato, avrà un epilogo drammatico. Drammatico, ecco la parola adeguata per definire “Gente che bussa alla porta”; qualcosa in più e soprattutto in meno rispetto a quanto un lettore di “thriller” si potrebbe aspettare. Patricia Highsmith col suo romanzo vuole indagare i lati oscuri del fanatismo religioso, di chi predica bene (nel vero senso della parola) ma razzola male; ma, con buona pace dello sbandierato “giallo psicologico”, delude coloro che attendono una svolta verso atmosfere da incubo, un qualcosa di misterioso, di intricato: nulla di tutto questo.
Un romanzo che, malgrado uno stile piuttosto algido, scorre piuttosto bene verso un epilogo prevedibile e non particolarmente emozionante, privo di quei fronzoli stilistici tanto poco efficaci quando si parla di vicende “thriller”, ma che possono risultare molto meno apprezzabili in opere che vogliano rappresentare storie dal sapore “sociale”; il rischio è sempre quello di un’opera a tesi, un po’superficiale nel suo manicheismo, nell’analizzare la mentalità retrograda della cittadina americana. Con “Gente che bussa alla porta” siamo orfani del mondo claustrofobico ed irrazionale della Higsmith, che pure nasce dalla quotidianità, e per questo, negli altri suoi romanzi “criminali”, risulta ancor più inquietante.
Il cinismo con cui la scrittrice ha saputo delineare i suoi amati antieroi, Tom Ripley su tutti, latita, o per lo meno ci appare meno evidente; è semmai il suo animo “liberal” (sempre controverso e contraddittorio) che sembra prevalere. Un cinismo che a dire il vero qua e là affiora in maniera piuttosto gratuita, soprattutto se ad esserne portavoce, è il giovane Arthur, la figura “positiva” del romanzo, il ragazzo libero ed alieno da fanatismi. Tanto per fare un banale esempio, ad una certa fascia di lettori, comunque attenta, non sarà certo sfuggito un paragone, buttato lì con molta nonchalance, tra un feto di maiale ed un feto umano, ambedue “informi”. Al di là di questi dettagli, che di certo non saranno graditi alla generalità di chi legge, è un dato di fatto che qui non pare presente, o non particolarmente evidente, quella sorta di transfert tra autrice e psicopatico di turno, vero motore delle storie criminali della Highsmith, dove si svela il carattere labile della nostra presunta normalità.
La dizione di “giallo psicologico” in copertina ha poco senso (se non quello di specchietto per le allodole), ammesso e non concesso che si possa definire un tale genere. L’appassionato potrà ricevere ben altre gratificazioni ed inquietudini nel leggere altre opere della Highsmith.
Qui a seguire una mia personale antologia, utile anche per i cinefili che vogliano approfondire la figura di Tom Ripley:
– Sconosciuti in treno (1950) – Bompiani
– Acque profonde (1957) – Bompiani
– Il sepolto vivo (1970) – Bompiani
– Il riscatto di un cane (1972) – Bompiani
– L’amico americano (1974) – Bompiani
– Piccoli racconti di misoginia (1974) – Bompiani
– Delitti bestiali (1975) – Fabbri editore
– Il Ragazzo di Tom Ripley (1980) – Sonzogno
– Ripley sott’acqua (1992) – Bompiani
Edizione esaminata e brevi note
Patricia Highsmith – “Gente che bussa alla porta” – Bompiani, I grandi tascabili – Milano, 2002. Traduzione di A. Veraldi. pag. 303 – € 8
Luca Menichetti. Lankelot, settembre 2006
Recensione già pubblicata su ciao.it il 23 agosto 2006
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