“Non ci sarà più alcuna lingua, non una lingua per il silenzio e per la terra: le labbra radicate non pronunceranno più parole, il freddo occhio del serpente sbircerà tra i vuoti del cervello, e non un grido dal cuore su cui sorgono i vitigni.
La tarantola si trascina tra i tronchi marci delle querce, la vipera sibila sui seni, si rovesciano i calici: ma la terra resterà per sempre. Il seme dell’amore germoglia nel deserto, e le radici degli olmi avvolgono le ossa degli amanti.
La lingua morta si dissecca e il cuore marcisce, cieche bocche scavano gallerie nelle carni, ma la terra resterà per sempre; la peluria cresce come a primavera sul petto sepolto, ma i fiori della morte sorti tra le cavità del cervello non appassiranno.” (pag. 17 – 18)
Potrei smettere di scrivere qui, di questo libro. Le parole citate dovrebbero bastare. Se tu qui di fronte non hai provato niente nel leggerle probabilmente anche il prosieguo non ti smuoverà. Ma solo probabilmente, perché se riducessi l’intero libro a queste poche frasi farei un torto grande al suo autore, e anche a te che stai leggendo. Ma di quale libro, quale autore, sto parlando?
Dalla morte al mattino, questo il libro; Thomas Wolfe, questo l’autore.
Dalla morte al mattino è una raccolta di racconti – pubblicata in origine nel 1935 negli Stati Uniti (con lo stesso titolo: From death to morning) e ripubblicata integralmente in Italia in questo 2014 da CartaCanta, curata e tradotta da Jacopo Lenkowicz – che mi ha riconciliato con la lettura e la scrittura, che mi ha ricordato come si possa scrivere (pure in traduzione, in vago tradimento) e cosa si possa leggere, che mi ha colpito e affondato, mi ha sbattuto con le sue onde, preso a pugni, e quando mi sembrava potesse arrivare la quiete, ecco che riprendeva a martellare, con immagini suoni odori oggetti persone sensazioni colori, con variazioni stilistiche, citazioni su citazioni, elenchi e progressioni verso l’alto, verso il fondo: ovunque la parola possa arrivare, Wolfe (e Lenkowicz) sembrava essere capace di portarcela. Ma chi diavolo è Wolfe? Da buon ignorante curioso ho letto la nota biografica contenuta nel libro e ho cercato informazioni in rete. Se la prima mi ha dato un buon quadro generale, dalle seconde ho scoperto qualche curiosità che mi ha aiutato con certi racconti. Si legge nella “Nota biografica”, “Autore dibattuto e controverso, Thomas Clayton Wolfe è stato nelle parole di Faulkner <<lo scrittore più talentuoso della nostra generazione>>, e personalità del calibro di Scott Fitzgerald, Maxwell Perkins e Jack Kerouac, tra gli altri, ne hanno ampiamente documentato l’importanza nella storia della letteratura americana”; ma forse è meglio ritornare a ciò che scrive lui stesso, in risposta a Scott Fitzgerald, nel luglio del ’37: “Well, don’t forget, Scott, that a great writer is not only a leaver-outer but also a putter-inner, and that Shakespeare and Cervantes and Dostoevskij were great putter-inners – greater putter-inners, in fact, than taker-outers and will be remembered for what they put in, remembered, I venture to say, as long as Monsieur Flaubert will be remembered for what he left out.” (pag. 5). Riguardo le curiosità trovate in rete una pertiene l’altezza di questo scrittore: quasi due metri. Facile e banale legare il racconto Gulliver – La storia di un uomo alto a tale notizia biografica. La statura ci porta però anche al tema delle “porte”, uno dei temi centrali dell’intera raccolta, e a dirla tutta basta scorrere i titoli dei quattordici racconti per capire quali questi siano: Nessuna porta: una storia del tempo e dell’erranza (di cui ho riportato l’incipit, appunto); Morte orgogliosa sorella; Il volto della guerra; Solo i morti conoscono Brooklyn; Buio nella foresta, strano come il tempo; I quattro uomini perduti; Gulliver – La storia di un uomo alto; I barboni al tramonto; Una delle ragazze del nostro gruppo; Il lontano e il vicino; Nel Parco; Vecchio Catawba; Polifemo; Circo all’alba.
La porta, il tempo, la morte, la guerra, il buio, i diseredati, a cui si aggiungono l’adolescenza, la figura del padre, le stagioni (soprattutto due mesi: Ottobre ed Aprile), le distanze, l’amore, la vita che continua, la solitudine…ne sto forse mettendo tanti? Troppi? Ma “a great writer is not only a leaver-outer but also a putter-inner”. Wolfe procede per accumulo in una densità lieve e di piombo. Sa essere epico, e lieve, sarcastico, ironico, divertente, ma forse più di ogni altra cosa è un autore che ti rende partecipe di ciò che scrive. Mi chiedo, di nuovo, se sento questo in una traduzione, nell’originale? Chi sa. Shakespeare, Eliot, Swift, Omero, la Bibbia, lo stesso Fitzgerald, e Faulkner e Hemingway, Wolfe dialoga con tutto ciò che ha letto, anche se, per quel che mi riguarda, La terra desolata in questo libro ha un posto particolare perché tante e tante volte Aprile viene citato, legato in vario modo a quello di Eliot, e più volte Ottobre in contrapposizione, e lilla ancora e ancora. Ma non ci sono solo i prestiti, perché poi arrivi a leggere Nel Parco, con la voce narrante che è quella di una ragazza che ricorda una corsa in auto a New York, nel Parco, appunto, con suo padre (un attore), e degli amici, e sì, di nuovo trovi scopertamente Shakespeare e Eliot, ed ecco che “Quella sera dopo lo spettacolo andammo al White, i due preti erano già lì e ci stavano aspettando. Dopo di noi arrivò il signor Gates – che è ancora vivo. L’ho incontrato in strada, sta invecchiando. Era sposato con una delle donne più belle mai viste, di recente morta carbonizzata in un incidente d’auto. Era successo sotto i suoi occhi: non è la cosa più orribile che avete mai sentito? Beh, in ogni caso si capiva dal modo in cui camminava che il signor Gates era eccitato per qualcosa: era un altro di quei grassi compagnoni, e le guance gli tremavano mentre si avvicinava.” (pag. 213) e se non bastasse, qualche pagina dopo “E quindi, capite, è andata così e così, è successo questo è successo quello. E non capimmo una parola di ciò che diceva, ma eravamo talmente dispiaciuti per lui che gli davamo ragione su tutto.” (pag. 218-219). Io son rimasto perplesso, perché insomma c’è questa ragazzina col padre, per locali, e due preti, e una corsa in macchina nel Parco, a New York, e magari è la traduzione, però ho sentito un’eco, solo che sarebbe stata un’eco di un romanzo del 1951, e quindi capite che non poteva essere: un’eco.
Come scrivere di questi racconti senza leggerli, senza ricopiarli dall’inizio alla fine per mostrarvi, ecco, qui e qui, lì e lì, così e cosà? Qualche sera fa c’era un’intervista a Vittorio Sermonti – qualche notte fa, a dirla tutta – e lui ad un certo punto ha detto qualcosa, qualcosa che non ricordo molto bene ma che mi ha lasciato la sensazione che fosse una cosa del genere, che la poesia non si può davvero spiegare, nel senso che non si può esaurire, che la poesia sta lì e tu la leggi e non la puoi capire, perché non è scritta per essere capita. Si legge magari per capire, ma non per capire la poesia, per capire altro. Forse è sempre così quando ci si trova di fronte a un’opera che ci colpisce: non si capisce l’opera, non la si comprende, ma questa ci fa capire altro, comprendere altro. Non ho idea se Sermonti abbia detto e intendesse davvero questo, ma io le sue parole le ho prese così, e anche quelle di Wolfe, le ho prese così. Come la storia delle anatre, dove finiscono le anatre? Non ho idea, ma uno spagnolo con la sua nave naufragò “…e d’improvviso lo spagnolo sentì l’eco delle anatre selvatiche che volavano sopra la nave, dritte e veloci come proiettili. […] Rapide, alte e diritte le anatre passavano sopra di lui, come proiettili volavano in direzione delle paludi costiere. E fu tutto.” (pag. 234 – 240)
Certo che non ho trattato moltissimi argomenti, forse nessuno, trovando però il tempo di fare un collegamento con ogni probabilità inappropriato, ma che mi ha divertito molto. In fondo, spero che abbiate interrotto la lettura dopo le prime quattro frasi e abbiate cercato questo libro e adesso lo stiate leggendo, perché è certo migliore di quanto io ne abbia scritto.
Edizione esaminata e brevi note
Thomas Clayton Wolfe è stato nelle parole di William Faulkner «lo scrittore più talentuoso della nostra generazione», e personalità del calibro di Scott Fitzgerald, Max Perkins e Jack Kerouac, tra gli altri, ne hanno ampiamente documentato l’importanza nella storia della letteratura americana. Nato a Asheville, in Carolina del Nord, il 3 ottobre del 1900, frequentò Harvard e nel 1924 fu nominato professore di Letteratura inglese al Washington Square College di New York. Nel frattempo viaggiò tra Europa e Stati Uniti d’America, soggiornando per lunghi periodi in Inghilterra, Francia, Italia, Svizzera e Germania. Nel 1929 pubblicò con la casa editrice Scribner il suo primo romanzo Look Homeward, Angel (Angelo, guarda il passato), dopo un attento lavoro di revisione compiuto su indicazione di Perkins per ridurre l’enorme mole del manoscritto. L’opera, fortemente autobiografica, ottenne un successo enorme e nel 1930 Wolfe poté ritirarsi dall’insegnamento per dedicarsi esclusivamente alla scrittura. Negli anni successivi realizzò tre lunghi romanzi e due raccolte di racconti. Morì a soli 38 anni, il 15 settembre del 1938.
Thomas Wolfe, Dalla morte al mattino, traduzione e cura di Jacopo Lenkowicz, CartaCanta editore, Forlì, 2014
Un racconto tratto dalla raccolta, sul sito controappuntoblog, dal titolo Solo i morti conoscono Brooklyn
Sul sito delle edizioni, dalla pagina del libro, è possibile leggere un estratto (sono le prime 25 pagine, più o meno)
Elliot edizioni ha pubblicato quest’anno un romanzo di Thomas Wolfe, O lost, tradotto da Maria Baiocchi e Anna Tagliavini. (O lost è la versione integrale di Look homeward, angel, primo romanzo di Wolfe…)
ab, luglio 2014
Follow Us