All’inizio c’è questa bambina con i cuginetti, lui e lei, in una casa di montagna: è la sera di un giorno di festa e sono nello stesso letto, i più piccoli chiedono storie alla più grande prima di addormentarsi e lei racconta, racconta, e poi si stufa, ma loro fanno altre richieste e così lei prende Pinocchio e la sua impiccagione (quanto possono essere sottili i bambini) e
“Sì, anzi no. Ti ho mentito. È vero che lo impiccano, ma lui non è cattivo, è il mondo che va sempre al contrario”.
“Che vuoi dire?”
“Voglio dire che ora è notte e si deve stare a occhi chiusi”.
“Ma se lui muore cosa possiamo fare?”
“Niente. Aspettare e dormire. Dormi, ora. Dormiamo tutti”. (pag. 10)
Finisce così il primo breve capitolo (o racconto, o frammento, cosa sarà mai?) di Tutti gli altri, esordio nella narrativa “lunga” di Francesca Matteoni, poeta pistoiese, per Tunué, nella collana nata da poco e denominata “romanzi”, diretta dallo scrittore fiorentino Vanni Santoni. Ero molto curioso di leggere questo libro, non fosse altro che per la conoscenza di Francesca e il fatto che me ne abbia cominciato a parlare quando ha iniziato a lavorare alla riorganizzazione dei suoi materiali narrativi in vista della pubblicazione, ormai quasi un anno fa. Una delle prime domande che mi sono posto, e che le ho posto, se non ricordo male, riguardava appunto la forma romanzo, perché sapevo che, oltre alla poesia, scriveva racconti, ma non avevo notizia né pensavo si sarebbe cimentata con la distanza più lunga. Mi disse che avrebbe preso proprio quelle brevi storie, che aveva scritto negli ultimi anni, e dato una forma unitaria al tutto. La curiosità aumentò: volevo proprio vedere come avrebbe fatto a superare certi scogli. C’è da dire che un elemento che univa tutte le sue narrazioni lo conoscevo già: l’io narrante è sempre femminile, con i capelli ramati e una predilezione per gli animali, proprio come l’autrice. Altri elementi ricorrenti sono l’infanzia, il dolore, la morte, i segreti, le fiabe, il nord, l’Inghilterra, l’Irlanda, i paesi scandinavi e le loro storie, e sopra a tutto questo una curiosità fortissima nei confronti di tutto ciò che è altro da sé e la necessità di comprenderlo e, persino, accettarlo. Accettazione intesa come quel momento in cui ci rendiamo consapevoli che l’altro (animale, persona, fatto, sentimento, mondo) può travalicare, e lo fa, la nostra capacità di capire, di arrivare al suo fondo, che c’è qualcosa che ci rimane misterioso, ci attrae ma non ci fa toccare, e facciamo pace con questa consapevolezza. Avevo quindi più di un’idea sul contenuto: sapevo già vi avrei trovato Pistoia, Torri, Londra, la Scandinavia, citazioni di scrittori e scrittrici, fiabe di tanti paesi, miriadi di animali, dunque la curiosità si rivolgeva al come, alla chiave che sarebbe stata usata per dare forma al romanzo. La chiave è molteplice, proteiforme a seconda dello sguardo: la si potrebbe definire una chiave temporale, si parte dall’infanzia e si torna all’infanzia, ma in sogno; fiabesca, partendo da Pinocchio e finendo con Peter Pan; materna, dato che all’inizio la bambina grande svolge il ruolo dell’adulto per i cuginetti, il ruolo di chi racconta le storie, e l’ultimo capitolo-frammento si intitola Madre… È una chiave chiara e sfuggente, dai contorni così precisi e netti ad osservarla da una certa distanza che finiscono con l’annebbiarsi quando si tenta di portarsela più vicino, che non apre solo una porta ma tante, e tutte contemporaneamente. Anche durante la lettura, nonostante si avverta una progressione, si possa arrivare a dire con certezza che i vari capitoli-frammenti seguono una successione cronologica, rimane la sensazione di essere di fronte a qualcosa che avviene tutta allo stesso tempo, di aver osservato ogni tempo e spazio in contemporanea. Torno alla bambina che racconta le storie ai cugini e alla fine dice che il mondo va al contrario, e che di fronte alla morte non si può che “Aspettare e dormire. Dormi, ora. Dormiamo tutti.” Sonno, e morte, for in that sleep of death what dreams may come e il passaggio a Shakespeare sarà banale ma non evitabile, come per me diviene inevitabile prendere un altro libro dalla libreria e cercare un passo che dice “E nonostante non ci fossero bambini che giocavano, né colombe, né tetti azzurri, sentii che il paese era vivo. E che se io ascoltavo soltanto il silenzio, era perché ancora non mi ero abituato al silenzio; forse perché la mia testa era ancora piena di rumori e di voci. Di voci, sì. E qui, dove l’aria mancava, si udivano meglio. Ti rimanevano dentro, pesanti.” (Juan Rulfo, Pedro Páramo, trad. Paolo Collo, Einaudi. Pag. 9) È la prima sera a Comala di Juan Preciado e si prepara al silenzio, alle voci della notte. Qui un silenzio nominato, di cui si sembra cercare il significato, la provenienza, in Tutti gli altri un silenzio quasi invocato, in entrambi un silenzio in cui si fanno vive le voci, in cui si deve prestare ascolto, al silenzio, e aprire gli occhi dell’immaginazione. Tornano alla mente le parole di Francesca al Caffè La corte, a dicembre, sul fatto che il materiale del romanzo è stato scritto nel corso di circa dieci anni, affiancando quella che è la sua scrittura poetica. E se la sua poesia ha trovato nel corso del tempo la via della pubblicazione varie volte, la sua narrativa ha limitato la propria comparsa in rete, su siti letterari, e in antologia (Toscani maledetti, curata da Raoul Bruni e pubblicata da Piano B nel 2013). Prendo così altri suoi libri, Artico (2005), Tam Lin e altre poesie (2010), Nel sonno (2014), alla ricerca di ancora non so cosa. Mi accorgo della loro scansione temporale e mi dico che forse non è un caso se ho preso proprio questi. Dal primo leggo, nell’intervista che conclude il volume “Credo che la poesia sia il linguaggio magico che riempie lo scarto tra quotidiano e interiorità, che proietta quasi con violenza, scrivendo come brandendo un pugnale, ma poi una volta aperto lo squarcio del verso mi ritrovo come pacificata, quieta, in una nuova indipendenza delle immagini e delle parole.” (pag. 46) e poi “Uno dei temi dominanti della mia poesia è la trasformazione, quel passaggio ripetuto e drammatico che rende sostenibile l’esistere, che dà un senso alla pena e permette la memoria…” (pag. 47), ancora “Dal punto di vista personale una delle esperienze che più ritorna, e che talvolta credo di esprimere pienamente solo nel verso, è il suicidio di un mio carissimo amico: allora la poesia non ha semplicemente un senso terapeutico, come qualcuno potrebbe sostenere, diventa doveroso ricordo e anche coscienza del distacco, un dialogo a distanza, mai spento.” (pag 48), infine una nota che restituisce forse l’inizio della scrittura di ciò che ora è diventato Tutti gli altri, “Inoltre alterno la prosa alla poesia: ultimamente sto scrivendo solo racconti.” (pag. 53). Anche se parla della sua poesia, questo alternarsi con la scrittura narrativa si può ben immaginare contaminato, e a posteriori si può dire che siano complementari e ci restituiscano un corpo di cui la prima costituisce i nervi, le ossa, gli organi, mentre la seconda i muscoli, la pelle, le cartilagini, le vene, le arterie, così la prosa rende in qualche modo più chiaro ciò che dice la poesia, senza svelarne la magia. Come se la poesia fosse il segreto magico, la prosa il dire del segreto che lo svela e al tempo stesso ne preserva la magia. Orientamento, terzo capitolo-frammento, parla anche di questo: siamo ancora nell’infanzia della protagonista, tra bimbi che giocano, quando ecco un giorno arrivare un bambino che si è perso, ma senza paura, e con cui si dirigono “dietro casa, tra la frescura dell’erba, accovacciati come indiani.” (pag. 19); lì l’ultimo arrivato racconta il suo segreto, il segreto di suo zio, facendo stringere la promessa di non rivelare a nessuno ciò che stava per dire. Alla sera la bambina rende partecipe la madre di questa nuova conoscenza “Ma evitai di menzionare la storia dello zio. Perché avevo promesso e perché sapevo che lei non ci avrebbe mai creduto. […] Non avrei saputo dire a mia madre della gabbia che si stringeva fuori dalla casa e del compromesso del silenzio, della conformità con cui sigillare negli anni il mio mondo interiore in una legge di sopravvivenza.” (pag. 22). Anche adesso che il segreto è scritto e chiunque abbia il libro tra le mani possa leggerlo la magia rimane intatta; se la poesia è scritta come brandendo un pugnale la prosa diventa un tiro con l’arco, la tensione il rilascio il percorso nell’aria e il bersaglio. Ma non è solo questo, il confronto tra le due scritture appare, oggi, come la chiusura di un viaggio iniziato anni fa, chiusura non intesa come punto finale, ma punto tra frasi, periodi, discorsi che si succedono. Un viaggio che mi ricorda parole, sempre dal Pedro Páramo di Rulfo, successive a quelle citate poco fa e che sono “ Mi rammentai quello che mi aveva detto mia madre: << Là mi udrai meglio. Sarò più vicina a te. Troverai più vicina la voce dei miei ricordi che quella della mia morte, se mai la morte ha avuto una voce>>.” (pag. 9). Provo a considerare il percorso di scrittura, da Artico a Tutti gli altri, passando per Tam Lin e altre poesie e Nel Sonno.
Da Artico (Crocetti, 2005):
“Artico
… I nostri morti scrivono il paesaggio. / […] / I morti ricordano come l’acqua / cieca, materna – un petto lucido di guscio…” (pag. 21)
“La prigioniera
Questa prigione è una pelle. / […] / … Pillole. Immacolate briciole come una volta / nel bosco. Qualcuno era perso. Le pillole mettono tutto in ordine pulito / mi fanno quieta come un libro chiunque può scriverci un senso. // Io mi conduco di sonno in sonno e di notte non so se mi capita / di abitare la carne di un altro. Poi non c’è proprio niente / e mi sembra sia un bene approdarvi. …” (pag. 27)
Da Tam Lin e altre poesie (Transeuropa, 2010)
“L’uomo senza le parole
… Ho brutte abitudini. Penso troppo / al dolore. La trama tracimata / dalle gambe, le vesciche esplose / la colpa sulle pillole tagliata / nella freddezza limpida dei bagni. …” (pag. 15)
“Corale del sangue e del fuoco
III
… Il tempo è niente se non separazione – / scrosciano elementari i volti, stinti / nella stoppa della terra / o in crepacci di cenere asciutti / – le croste volatili dei segni. / Ma restare è pesante – misurarti morto negli alberi / abbracciarli, consuma le difese in solitudine. // [..] // Discendevo assordandomi nel mondo, senza zanne. // I paesi nei versi, le assenze premature / sono enormi campisanti, persone artificiali. / Si sollevano da pietraie i colori silicei, incandescenti. / Tubolari di plastica di fiori.” (pag. 23 – 24)
Da Nel sonno (Zona, 2014):
“IV
Sopra il tavolo c’è una chiave. / È sempre stata lì, se la muovi / tintinna nel pensiero. // La chiave apre un albero – / nell’albero c’è una casa di morti. / Non ricordi mai come si vestono. / […] / I morti fanno un suono di carte e documenti / parlano nei rubinetti quando sei sola. / Un bianco gorgogliare di lenzuola.” (pag. 17)
“Tutti si addormentano. / Conosciamo la musica che scende.” (pag 112)
“Sei divisa dagli altri, li senti / sconnettere le parole, sfaldarsi – / la polvere qui si fa strumento / solidifica nel petto. / […] / La luce si estingue, non c’è mai stata. / Le fosse occluse da un vento / il freddo acquatico, l’odorato. / Procedete per balzi sulle mani.” (pag. 113)
Nel tempo e con il tempo si può avvertire la trasformazione, un progressivo distanziarsi da fatti e persone che non è freddo, non è sterile, non toglie il sentimento ma sembra sublimarlo, non elimina il dolore ma, in qualche modo, lo organizza, o per meglio dire, lo accetta e ne permette la memoria, una memoria totale e non parziale, una memoria che abbraccia per intero, così da rendere per certi versi sbagliato parlare di distanze, di distacco, perché quale distanza c’è quando si ha la visione completa di un oggetto in ogni suo minimo dettaglio? Quando in ogni momento vi si può tornare senza rimanere accecati dalla luce o dal buio che lo circonda? Nei versi citati sopra si racchiude, secondo me, un percorso di distacco e di avvicinamento che Tutti gli altri mostra forse in modo ancora più chiaro, perché lo racchiude interamente – là dove la produzione poetica ce ne mostra le tappe (anche se nella mia ripresa manca l’ultima raccolta, Acquabuia, uscita per Nino Aragno nel settembre 2014) –, come se in questo romanzo si fosse raggiunto il luogo, o il tempo, o entrambi, in cui si trova più vicina la voce dei ricordi di quella della morte, riprendendo Rulfo, o forse un dove e un quando le due voci si uniscono e si completano, perché in fondo il ricordo è sempre di un qualcosa che non è più, come la morte è un non esser più:
“I morti, non te li fanno vedere. Da bambino conosci solo le lapidi e le fotografie del cimitero, non sai cosa succede ai corpi, sei come la protagonista della fiaba che non deve infrangere il silenzio mentre si ferisce le mani tessendo con l’ortica. Pensi che la morte c’è, da qualche parte, una possibilità, un caso accidentale. Qualcosa di molto distante, come le nuvole che a pancia in su guardi sfaldarsi e ritornare, gigantesche e sfilacciate, poi più nulla di loro, nemmeno il vapore, solo il vuoto attorno.” (pag. 11)
“Le mie giornate sono questo scoprire e chiedere del passato, uno strascico vago di informazioni, di fili che si riallacciano nel paesaggio, quasi che niente avesse mai significato di per sé, isolato nell’attimo in cui accade. Incontro di nuovo gli eventi trascorsi, brillano in frammenti ignoti, come la neve sui vivi e sui morti, smantellano l’inganno degli anni, del loro spostamento. Per tutti questi anni ho derubato la vita. Ho incanalato ogni immagine in me stessa con punti di sutura, frasi mandate a memoria spillate sui buchi di futuro. Mi sono contaminata, un’imitazione rocambolesca di qualsiasi cosa, un assemblaggio che cigola per tenersi insieme. Il mio sangue è una colla spalmata su tutto ciò a cui mi sembra di assomigliare. E poi non assomiglio a niente…” (pag. 81)
“Ogni tanto ritorna il settembre dei miei diciotto anni. Presi tutte le pillole. Era stata una giornata normale, quasi felice. A casa la sera, tra le mattonelle rosa del bagno, avevo semplicemente aperto l’armadietto delle medicine, preso una manciata di scatole e mi ero svuotata il contenuto in gola, con calma, con diversi bicchieri d’acqua. […] Volevo solo che dentro qualcosa smettesse di crescermi e straripare come melma. Volevo solo non sentire più quel male sordo, senza lacrime: dormire, sognare un’altra vita, raggiungerla. […] Più tardi, la sera, crollai nel prato, senza controllo sulle mie ginocchia e incapace di chiamare mia madre. Non sapevo più la forma delle parole, i suoni come cigni dai colli piegati bizzarramente, sventrati. Una marmellata insipida di consonanti e sputo.” (pag. 82 – 83)
“Tutto poteva essere pulito, perfetto, se solo fossimo stati irraggiungibili. Se io avessi avuto sufficienti nomi per spiegargli le ossessioni e l’incostanza feroce delle storture che mi attraversavano. Le ferite, pensavo, si accendono come fiori, incuranti delle stagioni. Prima o poi marciscono e si disintegrano, è solo una questione di tempo.” (pag. 98)
“È un sogno, ma non so che sto sognando. […] Non sappiamo in anticipo quando avverranno le partenze o gli eventi importanti della nostra vita e non c’è modo così di mettersi il vestito della festa, o forse l’abito più adatto non è chiuso nell’armadio, non è quello confezionato apposta per essere esibito.” (pag. 99-101)
Così finisce che la prima impressione, appena terminato il libro, sia stata quella che al titolo mancasse una preposizione.
Edizione esaminata e brevi note
Francesca Matteoni (1975)è nata a Pistoia il 25 gennaio 1975. Si è laureata in Storia delle Religioni presso l’Università di Firenze con una tesi su mitologia celtica ed esoterismo nella poesia di William Butler Yeats. Ha completato un dottorato di ricerca in storia moderna presso l’Università dell’Hertfordshire (UK). Ha svolto vari lavori, tra cui assistente di base all’infanzia, pifferaia di strada e insegnante di pattinaggio artistico. Ha pubblicato libri di poesia, tra cui Artico (Crocetti, 2005), la silloge Higgiugiuk la lappone nel X Quaderno Italiano di Poesia (Marcos y Marcos, 2010), Tam Lin e altre poesie (Transeuropa, 2010), Appunti dal parco (Vydia, 2012), Nel sonno. Una caduta, un processo, un viaggio per mare (Zona, 2014) e Acquabuia (Nino Aragno, 2014). Suoi racconti si leggono nelle antologie Love out (Transeuropa, 2012) e Toscani maledetti (Piano B, 2013). Gestisce il blog «Fiabe», da cui è nato il libro Di là dal bosco (Le voci della luna, 2012). Suoi scritti appaiono su «Nazione Indiana», «Il primo amore», «Nuovi Argomenti» e altre riviste online o cartacee. Ha all’attivo pubblicazioni accademiche in inglese e in italiano, tra cui il libro Il famiglio della strega. Sangue e stregoneria nell’Inghilterra moderna (Aras, 2014).
Francesca Matteoni, Tutti gli altri, Tunué, Roma, 2014. euro 9,90.
Un’intervista, su PassioneLettura.
La pagina di Tutti gli altri sul sito Tunué, completa di rassegna stampa
ab, gennaio 2015 Lankelot
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