“Signore, dice, devo confessarvi che non sono, che non sono mai stato……”. Così Amir Ali, uno dei protagonisti dell’ultima opera di Tabish Khair, il presunto thug del titolo, che poi non va oltre la sua confessione ma forse svela al lettore una volta per tutte il grande inganno del quale è primo responsabile. Forse. Scrivo “forse” perché Khair, autore indiano emergente, almeno da come l’ho potuto interpretare, ha costruito il suo romanzo come un gioco di specchi e, pur evitando una trama complessa o con un epilogo realmente a sorpresa, ha voluto disseminare le pagine del suo libro di sensazioni impalpabili, di dubbi. Quindi azzeccato il passaggio riportato in quarta di copertina: “Forse mi domanderete, anche riguardo alla provenienza degli appunti: queste testimonianze sono autentiche? Come posso rispondere a questa domanda? […] Accolgo i vostri dubbi con un dubbioso sorriso. E rispondo: che siano autentiche o no, queste voci sono vere. Poiché in fondo, qualsiasi storia degna di essere riferita è una storia vera. E’ il fantasma di una storia vera, quello che narro in queste pagine un tempo candide”.
Ma chi è Amir Ali? E’ un ex appartenente alla spietata setta dei thug, condotto in Inghilterra dal capitano William T. Meadows, esperto di frenologia, che vuole proporlo come esempio vivente della possibilità di redenzione anche da parte di un criminale per di più di razza non bianca. Il suo cranio sarebbe la prova di questa intuizione, e non soltanto le parole di Amir Alì che si era presentato come un thug in fuga dai suoi ex compagni. Intanto in quella Londra vittoriana del 1840, popolata da resurrezionisti e ladri di cadaveri, iniziano a verificarsi spaventosi crimini, con tanto di vittime decapitate, e, visto il suo recente passato, Amir Ali diventa uno dei principali sospettati. Questi riuscirà ad uscire indenne dai sospetti sia grazie alla sua Jenny, una giovane londinese poi barbaramente uccisa, sia grazie all’aiuto di quegli amici che abitano i tenebrosi bassifondi di Londra, alle prese con piccoli crimini e presunte leggende metropolitane come gli uomini-talpa. Nel frattempo, nelle ricche case inglesi, facoltosi borghesi appassionati di frenologia e studiosi illuminati come il capitano Meadows, si confrontano sulle differenze tra le razze umane, esaminando anche i loro crani, mostrando o una precoce disponibilità alla tolleranza o, più spesso, un’accanita predisposizione al pregiudizio. L’epilogo del romanzo, come anticipato, poteva forse prospettarsi con qualche colpo di scena tale da spiazzare il lettore, un po’ sulle orme di Thomas Harris e del suo Hannibal Lecter, mostrando quanto sia labile la distinzione tra il “bene e il male”. Tabish Khair ha fatto un’altra scelta, coerentemente con l’impostazione data alla sua opera fin dalle prime pagine e che ha davvero poco a che fare con la semplicità (o la banalità?) del romanzo “di genere”. Con uno stile che definirei quasi classico, intendendolo diverso sia da uno sperimentalismo un po’ nevrotico e sia da quel che di anonimo e piatto che caratterizza tanti best seller contemporanei, l’autore indiano ha costruito qualcosa di artisticamente apprezzabile e che ancora non mi era capitato di leggere: una sorta di romanzo “di documenti”. Su due piedi non saprei quale altra definizione usare. Intendo di “documenti” per un’opera che non mostra un unico narratore ma che alterna i brevi capitoli declinati con terza persona al passato ad altri declinati invece al presente, con interventi che sembrano autobiografici e non solo (in certi passaggi leggiamo di una “chiaroveggenza retrospettiva”), caratterizzati frequentemente da un epistolario parallelo (le relazioni scientifiche del capitano Meadows sulla storia Amir Ali ex thug e le lettere dello stesso Amir alla sua innamorata Jenny), gli articoli del giornalista di nera Danny Oates, il flusso di pensieri di un anziano invalido, sposato ad un’indiana, e testimone della caccia agli assassini. Qualcosa che forse all’inizio potrebbe spiazzare il lettore, salvo poi capire il particolare meccanismo imbastito da Khair ed apprezzare queste molteplicità di prospettive.
Ogni tanto si colgono momenti che potrebbero apparire un po’ troppo intellettualistici se messi in bocca ad un presunto ex thug di scarsa cultura ma che confermano letteralmente questo gioco di specchi e di prospettive: “quando ripenso alle mie ore in prigione mi sorprendo a fissarmi in uno specchio, e dallo specchio ricambia il mio sguardo qualcuno che sono io, eppure non lo sono. Mi sorprendo incapace di dire chi io sia veramente, se non sono anche il thug cui hanno dato vita le storie da me stesso create. Non siamo dunque altro che balocchi del linguaggio? Quand’è che raccontiamo lo storie, e quando sono loro a raccontare noi?”. Amir è un abile maestro dell’inganno, anche se forse non in quanto tugh, ma si ritroverà alle prese con altrettanti personaggi abilissimi ad ingannare e quindi in un intreccio di storie “dove niente è come sembra”. L’atmosfera misera e tenebrosa dei bassifondi londinesi farà il resto. Le parole di Khair, intessute da sensibilità tutta orientale e non aliene da un certo intellettualismo, nel voler presentare un romanzo che pare nascere da un contributo collettivo e spontaneo di antichi e recenti testimoni, sono in fondo coerenti: “le storie, si sa, sfuggono alle parole. Esse si aggregano alle ombre, quando queste emergono dall’oscurità”.
Edizione esaminata e brevi note
Tabish Khair è un autore indiano di lingua inglese. Nato nel 1966 nello stato di Bihar, nell’India nord-orientale, Khair insegna attualmente all’università di Aarhus in Danimarca. Collabora con testate giornalistiche quali il “Times of India”, “Hindu” e il “Guardian”. Tra le sue opere, Where parallel lines meet (Penguin, 2000), definita dalla stampa specialistica “una delle più importanti raccolte degli ultimi anni di un autore indiano in lingua inglese”, i saggi Babu Fictions (Oxford UP., 2001) e The Gothic, Postcolonialism and Otherness: Ghosts from Elsewhere (Palgrave, 2009) e il romanzo Filming: A love story (Picador, 2007). A proposito dei thug è stato finalista al Man Asian Literary Prize 2010. Le opere di Tabish Khair sono state tradotte in varie lingue e pubblicate in Europa, Stati Uniti e Asia. La Nova Delphi Libri ha pubblicato nel 2010 il suo romanzo “Il bus si è fermato”.
Tabish Khair, “A proposito dei thug”, Nova Delphi Libri, Roma 2012, pag. 264
Recensione già pubblicata il 22 dicembre 2012 su ciao.it e qui parzialmente modificata.
Luca Menichetti. Lankelot, dicembre 2012
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