Domenica 10 settembre 2017
Kedougou è una città tranquilla nella quale svegliarsi e noi lo facciamo abbastanza presto, anche per colpa di un tizio che bussa alla nostra porta e che cerca Aliou, il proprietario del campement.
Rimettiamo i nostri effetti negli zaini, alle otto siamo già fuori e prendiamo un taxi per la regional house dei Peace Corps, dove abbiamo appuntamento con Dustin. Lui ci accoglie praticamente in pigiama ma ci ha già preparato tutto quello che ci serve: una tenda, un materassino ed un sacco a pelo. La tenda sembra in buone condizioni, il sacco a pelo è grande e basterà per entrambi, il materassino invece è troppo ingombrante e decidiamo quindi di lasciarlo qui insieme ai vestiti non necessari. Dustin nel frattempo chiama un suo amico tassista che ci porterà fino al villaggio di Dambacoi, dove il suo collega verrà a prenderci.
Mentre aspettiamo il tassista usciamo a procurarci la colazione da una delle tante paninare mattutine. Per fortuna ha ancora dei fagioli e della maionese, la mia combinazione preferita.
Il tassista arriva, accompagnato da un amico che probabilmente non aveva nulla di meglio da fare stamattina. Salutiamo e ringraziamo Dustin e ci diamo appuntamento al giorno seguente. La nostra auto sarebbe considerata un rottame in Italia, ma per gli standard locali è ancora in buone condizioni.
Prendiamo la strada di terra rossa che porta fino a Salemata, circa cento chilometri ad ovest. Queste zone sono abitate da due delle minoranze più misteriose del Senegal, i bassari ed i bédik, celebri per i loro annuali riti di passaggio che avvengono a maggio, alla fine della stagione secca e che servono a propiziare le piogge, ma anche a far entrare i giovani tra gli adulti. Entrambe le etnie parlano una loro lingua e hanno radici animiste, anche se con qualche influenza cristiana dovuta alla colonizzazione.
La strada è in buone condizioni, presenta delle leggere curve ondulate dovute al terreno, in lontananza delle verdeggianti colline rompono la linea dell’orizzonte. Il viaggio dura circa un’ora: attraversiamo villaggi sempre più piccoli ed incrociamo sempre meno auto. Il tassista, seguendo le istruzioni di Dustin, ci lascia subito dopo un minuscolo villaggio, in prossimità di un sentiero diretto a sud. Seguendolo dovremmo arrivare in pochi minuti a Dambacoi, nostro punto d’incontro con il collega di Dustin. Intorno a noi campi coltivati e vegetazione lussureggiante. Il villaggio è un pugno di case rotonde con tetto di paglia a cono. Un’anziana signora ci saluta con sorprendente entusiasmo da uno dei campi. Ci fermiamo nelle vicinanze delle case e chiamiamo al telefono Kikela Diallo, questo è il nome del nostro contatto.
Lui ci dice che è “en route”, “per strada”: questa in Senegal è in genere l’espressione in codice per dire che non si arriverà prima di un’ora. Non ci resta che aspettare, ci sediamo su un tronco, salutiamo gli abitanti di passaggio e attiriamo l’attenzione di un galletto dall’aria particolarmente arrogante. Esattamente dopo un’ora Kikela ci chiama e ci dice che è all’incrocio, torniamo indietro e lo vediamo: un signore sulla cinquantina, non molto alto, lineamenti morbidi, raffinati, quasi femminili. Porta un cappello rotondo ed ha una bicicletta, un mezzo di trasporto molto comune tra gli abitanti dei villaggi.
Kikela e Dustin abitano a Worige, a due di ore cammino da qui. Il sole sta cominciando ad avvicinarsi allo zenit e il caldo si fa sentire, più che la temperatura è l’umidità che ci fa sudare come soppresse appese. Kikela parla un po’ di wolof e quasi niente di francese, ancora una volta sono grato di avere Jamie con me. Il sentiero è facile da seguire e serpeggia tra gli alberi, quasi sempre pianeggiante. Ogni tanto sbuchiamo in qualche radura coperta di erba verde chiaro alta quasi due metri e dove ci si aspetta di vedere far capolino un leone o qualche altro animale da documentario. A volte passiamo pure di fianco a qualche coltivazione, soprattutto mais. Arriva pure il momento di bagnarsi i piedi e di attraversare un piccolo fiume fangoso che con più acqua sarebbe difficile da guadare.
Il villaggio di Worige è a poca distanza dal fiume: entrando Kikela ci indica i suoi campi di mais, maturo in questa stagione. Le case del villaggio quasi non si vedono a causa delle altissime piante, quella di Kikela è composta da tre diversi edifici con al centro uno spazio ombreggiato dove sedersi, mangiare, distendersi e stare in compagnia.
Oltre agli immancabili bambini urlanti, veniamo accolti anche da qualche donna: per come funzionano le cose in Senegal potrebbero essere sia mogli che figlie di Kikela, difficile da capire, la poligamia qui è ancora normale. Il padre ospitante di Jamie per esempio ha tre mogli, la più giovane è rimasta vedova con tre figli e allora è venuta a stare con lui su suggerimento della cugina, che è la prima moglie. Per una donna non è ben considerato stare da sola dopo che è rimasta vedova e spesso avere una seconda o terza moglie rappresenta un vantaggio per le altre perché così possono dividersi i compiti in casa.
Ci viene offerta dell’acqua e poi Kikela passa agli affari: ci siamo già messi d’accordo con Dustin: 3000 franchi a testa per arrivare fino alla cascata e tornare il giorno dopo. Kikela però dice che si è capito male, in verità il prezzo è di 6000 franchi a testa. Noi siamo piuttosto stupiti e avremmo la tentazione di chiamare Dustin per chiedere conferma, in Senegal però è considerato molto maleducato dire a qualcuno che sta mentendo e di conseguenza non possiamo fare altro che acconsentire. Ad accompagnarci sarà il genero di Kikela e la partenza è fissata per dopo pranzo. Dopo aver affrontato questa discussione l’atmosfera sembra farsi più rilassata.
Una delle donne ci offre una pannocchia abbrustolita appena fatta. Molto spesso mi sono chiesto che sapore avessero le pannocchie arrostite, avendole spesso viste nei cartoni animati o alle sagre di paese, ma dal momento che a me il mais non piace, non ho mai rischiato. Stavolta non posso rifiutare e così con un misto di curiosità e pessimismo mordo la pannocchia. Capisco subito di essermi sbagliato alla grande: il sapore non assomiglia per niente a quello del mais in scatola, questo è molto più buono, per non parlare poi del piacere di mordere una pannocchia e di levarne i semi un poco alla volta. La finisco tutta d’un fiato e anche se non lo dico, ne vorrei subito un’altra.
Il pranzo consiste in una farina di mais cotta con acqua e condita con una salsa rossa a base di cipolle. Mi ricorda molto la polenta, provo a spiegare a Kikela che per secoli nella mia regione hanno mangiato una cosa molto simile a questa ma lui non sembra cogliere l’ironia della cosa. Dopo pranzo abbiamo tempo per un’altra pannocchia (grazie al cielo) e per riposarci qualche minuto. Kikela si distende e chiude gli occhi, Jamie si fa fare qualche foto con le donne, che trovano la cosa molto divertente. Si vede che Jamie è abituata alla vita di villaggio, sa esattamene cosa fare e cosa dire per risultare subito simpatica a tutti, alle donne in particolare. Una si chiama Maimuna Diallo, dev’essere la seconda o terza moglie di Kikela visto che porta lo stesso cognome. Una di loro, che scopriamo chiamarsi Denda Camara fa l’ataya, il tè senegalese: un ottimo digestivo che con la sua sconcertante quantità di zucchero è ottimo anche prima di una lunga camminata.
Verso le quattordici arrivano altri uomini, uno di loro è l’addetto al pozzo, ogni giorno parte con il suo carretto per andare a riempire le taniche e poi le rivende agli altri abitanti. Queste persone sono tutte di etnia pular e in effetti hanno dei lineamenti diversi rispetto alla maggioranza degli altri abitanti: sono più slanciati, hanno gli zigomi più alti e pronunciati, quasi come non ci fosse abbastanza pelle a coprire tutta la faccia. Nell’aria risuona la musica di una radio a pannelli solari che viene dalla casa del vicino.
Verso le quindici arriva Aliou, il genero di Kikela e così possiamo finalmente partire, non senza però accettare due pannocchie da viaggio già abbrustolite. Insieme a noi viene pure un altro uomo, un amico di Aliou. La cascata di Ingli, nostra meta definitiva, dista altre due ore di cammino da Worige, sempre verso sud, a ridosso del confine con la Guinea.
Intorno al villaggio ci sono tutte le coltivazioni degli abitanti, quasi solo mais, ma ogni tanto c’è pure qualche altra pianta. In mezzo ad un campo, un cane sopra una tettoia di legno si riposa pacifico, Aliou ci spiega che tiene lontani gli uccelli e le scimmie. Attraversiamo un piccolo torrente dove una madre sta facendo il bagno ai suoi bambini e proseguiamo in questo mare di verde brillante. Davanti a noi un crinale di basse colline indica la nostra destinazione. Attraversiamo qualche piccolo villaggio a malapena visibile nel verde della vegetazione e passiamo di fianco ad una moschea dal tetto di ferro.
La vera sorpresa però arriva quando raggiungiamo un fiume, più largo dei precedenti e non attraversabile a piedi, o almeno non in questa stagione. Per fortuna però esiste un ponte: è del tipo tibetano che tanto ci piace quando si va in montagna, con la differenza che qui non ci sono moschettoni e la manutenzione non è certo delle migliori. I due cavi di ferro a cui ci si può appoggiare sono ad altezze diverse e piuttosto mobili, si cammina su rami di bambù posti a distanze irregolari e pure scivolosi, certo un’eventuale caduta non avrebbe gravi conseguenze, ma il cuore mi accelera sensibilmente mentre attraverso e copiose gocce di sudore mi scendono dalla fronte fino al naso.
Compiuta la traversata vediamo per la prima volta la cascata in lontananza, ancora un’ora e siamo ormai nella vallata, su uno stretto sentiero umido circondato da erba. Incontriamo una capanna di raccoglitori di frasche di palma e poco dopo, Aliou, che cammina davanti a me, all’improvviso fa un saltello, io istintivamente lo imito e mentre sono in aria noto sotto di me un piccolo serpente.
I serpenti sono le creature che mi fanno più paura, in assoluto e da queste parti ce ne sono di molto pericolosi.
Pitoni, mamba, cobra…ho sentito molti racconti di cobra trovati anche nei garage o mentre si aggiravano nelle vicinanze delle greggi. Non ho idea di che serpente sia questo, so solo che ha delle fantasie marroncine sul corpo e che non sembra contento. Jamie pare incuriosita, io mi allontano senza girarmi e ponendo una grande attenzione a dove metto i piedi.
Finalmente arriviamo alla cascata di Ingli: il luogo è veramente paradisiaco e potrebbe benissimo fungere da scenografia per un film sulla Genesi. La cascata in sé è alta sui venticinque metri ed è piuttosto larga, dopo qualche rapida il corso d’acqua si trasforma in pacifiche ed invitanti pozze cristalline. Aliou ed il suo amico ci salutano, chiameremo domani Kikela per metterci d’accordo su che ora farci venire a prendere.
Non appena i due si allontanano ci liberiamo dei vestiti puzzolenti e sudati e ci buttiamo in acqua. La temperatura è perfetta, rinfresca ma non è ghiacciata, il fondale è abbastanza profondo e le rocce lisce a causa della corrente. Il cielo è sereno e il sole sta cominciando a scendere, proiettando una luce arancione sulla foresta. Un luogo veramente magico, selvaggio e remoto. Siamo soli, una sensazione strana, inebriante co
n una punta di preoccupazione che cerco di recludere nel fondo della mente per non guastare il momento. Jamie si lascia galleggiare sull’acqua e sembra in pace con il mondo.
Usciti dall’acqua facciamo aperitivo con le due pannocchie regalateci nel villaggio e poi montiamo la tenda su uno spiazzo quasi pianeggiante di fianco al fiume. Anche in caso di pioggia dovremo essere abbastanza riparati, i problemi potrebbero arrivare se cominciasse a piovere veramente tanto e allora dovremo stare attenti al livello dell’acqua.
L’oscurità scende rapidamente in questa stretta vallata, ceniamo con qualche arachide e dei biscotti, le pannocchie ci hanno riempito a sufficienza. Beviamo l’acqua del torrente, Dustin ci ha detto che è pulita, sa di minerali, così diversa da quella venduta nei sacchetti di plastica in tutt
o il Senegal. Passiamo la serata a giocare a scopa al lume della torcia del telefono di Jamie, ancora una volta perdo malamente. Ogni tanto punto la torcia tra i cespugli intorno a noi, giusto per controllare che non ci sia nulla di pericoloso.
Andiamo a letto presto, siamo entrambi stanchi, il terreno è duro e la giacca che uso come cuscino non è delle più comode, ma mi addormento lo stesso. Vengo svegliato dopo circa un’ora da un suono che ho imparato a temere: la pioggia sul telo della tenda. Le nuvole devono essere arrivate dopo che è calato il buio. In passato ho sempre avuto una certa sfortuna con le tende, in particolare durante i miei anni da scout
e durante il viaggio in auto da Venezia a Lisbona, ho quindi sviluppato una sorta di terrore per la pioggia mentre mi trovo in una tenda. Pure Jamie si è svegliata e sembra preoccupata, se la pioggia dovesse trasformarsi in un tipico acquazzone tropicale potremmo avere qualche problema.
Con la torcia esamino le pareti della tenda, facendo bene attenzione che il telo interno non tocchi quello esterno, tutto sembra a posto ma non sono tranquillo. Mi distendo e cerco di rilassarmi ma ogni cinque minuti accendo la torcia e mi guardo intorno alla ricerca di perdite, senza però trovarne. La notte passa più o meno così, con me e Jamie che ci svegliamo regolarmente e controlliamo la situazione. La pioggia continua fino alle quattro del mattino, regolare, senza per fortuna diventare troppo violenta. Agli angoli della tenda c’è qualche perdita ma non sembra espandersi. Alla fine la pioggia s’interrompe e noi riusciamo ad addormentarci fino a quando non veniamo svegliati di nuovo dalle prime luci dell’alba.
Francesco Ricapito Settembre 2017
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