All’indomani della tragica scomparsa di William Klinger, molti di coloro che conoscevano le ricerche e l’opera dello storico italo-croato, hanno messo in conto una qualche relazione tra l’omicidio e l’OZNA, la polizia politica di Tito. Un’idea del tutto legittima perché se è vero che Klinger proprio con “Il terrore del popolo” si era fatto conoscere ed apprezzare, nel contempo si era fatto anche non pochi nemici: di sicuro i nostalgici e gli storici affezionati alle letali ideologie del XX secolo non hanno minimamente gradito i suoi studi sui servizi segreti jugoslavi. I motivi di questa ostilità sono evidenti. Nelle pagine del “Terrore del popolo” la figura di Tito viene ridimensionata e ricondotta alla sua realtà di autentico leninista, e soprattutto la stessa costruzione della Jugoslavia rossa viene interpretata alla stregua di un’operazione di potere studiata con immenso cinismo e con l’apporto fondamentale dell’OZNA, servizio multifunzionale di intelligence e repressione. Intendiamoci, i delitti della polizia segreta jugoslava, secondo la ricostruzione di Klinger, rappresentano l’esito di un percorso che parte da molto lontano; e non a caso i due terzi della ricerca storica, prima di poter leggere esplicitamente dell’OZNA a pagina 108, sono tutti dedicati alla formazione leninista di Josip Broz, detto Tito, ed alla complicatissima situazione politica presente nell’area balcanica fin dall’inizio del XX secolo, passando per gli anni confusi del patto Ribbentropp – Molotov. E’ evidente quindi come Klinger abbia concentrato in poco meno di centoottanta pagine una gran mole di informazioni (si vedano le numerosissime note in calce al testo), frutto di ricerche d’archivio condotte con piglio di “investigatore”; e da qui uno stile che potremmo definire “denso”, tipico di uno storico che intende affrontare la sua materia con spirito scientifico e che non lascia alcuno spazio agli accomodamenti della divulgazione. Del resto la sostanza e gli argomenti che scaturiscono dalle ricerche di Klinger ci mettono davanti ad una realtà che non ha avuto nulla di glorioso. Lo storico italo-croato, memore dell’opera di Geoffrey Swain ed altresì consapevole delle carenze della storiografia contemporanea, ha inteso approfondire la strategia e la tattica di Tito che, da buon leninista, usò l’OZNA per affermare il suo sistema di potere: l’impegno principale del leader partigiano, che così disattendeva le direttive di Stalin, era incentrato nella strategia oltranzista di impedire un fronte comune con gli altri movimenti patriottici che combattevano i fascisti e i nazisti, e, nel contempo, subordinando la solidarietà antifascista ai suoi disegni annessionistici ed imperiali, incentrato a promuovere una vera e propria guerra civile, magari mascherata, nei confronti dei cetnici. Al contrario “Dimitrov (ovvero Stalin) condannava la fondazione delle brigate proletarie quale espressione di una politica settaria che avrebbe ridotto la base dei simpatizzanti per il movimento di resistenza. Peggio: Mosca intimava di congiungersi immediatamente con le forze cetniche con le quali i partigiani di Tito erano ormai in guerra aperta” (pag. 101).
Risulta chiaro quindi quale fu il vero colpo di fortuna di Tito: nel 1943 la dissoluzione del Komintern, la possibilità di avere libertà nei rapporti con gli angloamericani e di scatenare una lotta senza quartiere nei confronti dei cetnici di Draža Mihailović. I contrasti poi con la dirigenza slovena, autonoma dal punto di vista organizzativo e riottosa a sottomettersi, rappresentarono un ulteriore tassello della strategia titina: al solo scopo di scalare il potere, si comprese ancor di più quanto fosse necessario avere alle dirette dipendenze un apparato di sicurezza e informazioni centralizzato. Assodata la sua abilità nel modificare ed adattare le strategie a seconda del contesto, la linea fondamentale di Tito risulta perciò chiara: usare un apparato repressivo come l’OZNA – che quindi non aveva niente a che fare con la guerra contro i nazisti – al fine di consolidare il suo dominio sui territori liberati dai partigiani jugoslavi. Proprio per questa ragione la presenza dei sovietici e degli angloamericani, solo teoricamente alleati, poteva creare dei problemi: contrariamente a Stalin, che pretendeva una strategia di infiltrazione, i comunisti titini, senza troppe remore, forti delle esperienze guadagnate sul campo durante i primi anni di guerra partigiana, col braccio insanguinato dell’OZNA intendevano liquidare subito i potenziali antagonisti del loro leader. Leggiamo: “Sugli stalinisti convinti si sarebbe ben presto abbattuta la scure della repressione sulla cui efficacia non si potevano nutrire dubbi: in un discorso al quarto plenum del Partito nel 1951 e poi apparso sul quotidiano belgradese ‘Politika’, Ranković [ndr: capo dell’OZNA] ammise che per le prigioni jugoslave transitarono dal 1945 al 1951 3.777.776 persone (su una popolazione di circa 13 milioni di abitanti) e circa 568mila furono i nemici del popolo liquidati, la maggioranza nei primi mesi del terrore del 1945. Dell’ondata degli arresti operati dall’UDB-a [ndr: polizia politica jugoslava 1946-1966] nel 1949 Ranković ammise che per il 47% essi furono arbitrari” (pag. 160). Una logica repressiva che, come abbiamo anticipato, si rivela innanzitutto con l’istituzione dell’OZNA, tale da segnare “il passaggio per l’apparato di sicurezza dalle necessità operative della resistenza armata a quelle del controllo del territorio in vista del potere in tutta la Jugoslavia” (pag. 126). E da qui la logica e spietata conseguenza: “chiunque fosse rimasto nel territorio d’occupazione e non fosse un attivo sostenitore (da agente clandestino o da combattente partigiano) del movimento di liberazione di Tito era da considerare un nemico del popolo” (pag. 127); al punto che “dopo la sconfitta delle forze dell’Asse essere antifascisti ma filooccidentali esponeva a maggiori rischi che essere stati collaboratori dei fascisti” (pag. 142). Un contesto nel quale la “Direttiva per la liquidazione finale del nemico” (1945) suona quanto meno sinistra e che effettivamente consentì all’OZNA, dopo un periodo di puro terrore, di organizzare l’avvento dei cosiddetti poteri popolari.
Una logica che, secondo Klinger, spiega anche quanto accaduto pochi anni prima in pieno conflitto mondiale: l’organizzazione di movimenti di resistenza nelle aree limitrofe alla Jugoslavia sarebbe stata una specie di baluardo difensivo volto a impedire eventuali penetrazioni angloamericane. E perciò “a ben vedere la presenza di un attivo movimento partigiano negli Appennini piuttosto che combattere i tedeschi sembra messo apposta per impedire agli alleati la risalita della pianura padana” (pag. 118). Parimenti “Tito costringeva le organizzazioni comuniste periferiche a rompere i ponti col mondo e più tardi estese lo schema anche ai movimenti resistenziali in Italia, Albania e Grecia che in questa maniera finirono per subordinarsi a lui” (pag. 116). Una strategia che Klinger ricorda più volte anche citando l’opera di Kardelj, impegnato a sottomettere il PCI al Partito comunista sloveno: “per tutto il 1942 Kardelj profuse ogni sforzo al fine di neutralizzare i comunisti italiani sul confine orientale, attraverso Massola ‘Quinto’, dirigente comunista italiano incaricato dal Comintern della ricostruzione del Centro interno del PCI. Massola redige con continuità rapporti destinati alla centrare del Comintern di Mosca che però non vengono recapitati. Le comunicazione di Mosca all’italiano parimenti vengono bloccate” (pag. 113).
Lo storico, nelle sue conclusioni, cita delle parole di Himmler, uno che i criminali li conosceva bene e che a proposito di Tito notò come “superficialmente poteva apparire l’alleato dei russi e degli angloamericani, ma in realtà fu sempre attento a promuovere il suo interesse”. Difatti – continua Klinger – “da rivoluzionario Tito non scrisse una riga sul marxismo-leninismo e quando divenne capo di uno Stato europeo preferì vivere da nababbo. Tito preparò la sua scalata seguendo una logica manageriale che oggi ci appare piuttosto familiare: da agente (1928) fu promosso a capo area in Slovenia e Croazia, potendo così entrare nella direzione (1937). Divenuto direttore generale (1940) e poi anche presidente (1945), dopo lo scontro con la proprietà (1948) Tito privatizzò l’azienda della quale, dopo essersi assicurato nei canali di finanziamento, divenne l’unico proprietario” (pag. 166). Tutto molto chiaro ed appunto per questo non c’è affatto da stupirsi delle ostilità riservate a Klinger da vivo e da morto.
Edizione esaminata e brevi note
William Klinger, (Fiume, 24 settembre 1972 – New York, 31 gennaio 2015) è stato uno storico con doppia cittadinanza croato-italiana. Nel 1997 si laureò con lode in Storia all’Università di Trieste con una tesi dal titolo “Leggi e spiegazione in storia: un approccio naturalistico”, mentre frequentava anche l’Università di Klangenfurt grazie a una borsa di studio ottenuta dal governo austriaco. Nel 2001 ottenne un master alla Central European University di Budapest. Nel 2007 ha conseguito il dottorato all’Istituto universitario europeo a Fiesole (FI). Klinger era poliglotta e oltre al croato parlava italiano, tedesco, inglese, friulano, russo, ungherese e sloveno. Residente a Gradisca d’Isonzo, era ricercatore presso il Centro di ricerche storiche di Rovino. I suoi studi si concentrarono sulla storia dei Balcani e della Jugoslavia comunista in particolare. Klinger è stato ucciso il 31 gennaio 2015 a New York dallo statunitense di origini fiumane Alexander Bonich con due colpi di pistola.
William Klinger, “Il terrore del popolo: storia dell’OZNA, la polizia politica di Tito”, Edizioni Italo Svevo, Trieste 2012, pp. 176.
Luca Menichetti. Lankelot, marzo 2015
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