Islam e Finanza sono due argomenti che, di questi tempi, risvegliano polemiche a non finire anche se non sempre si capisce perché. Difficile però che “La banca e il minareto. Mondo islamico e finanza etica” possa offrire spunto per polemiche fuori misura: il libro di Roberta Ricucci e Valentina Moiso è un saggio divulgativo che affronta in maniera comprensibile e, secondo noi, con il necessario rigore – nei limiti delle sue 160 pagine – un argomento forse sconosciuto ai più e che svela un lato dell’Islam poco compatibile con la vulgata della religione necessariamente sanguinaria e oscurantista. Un’opera che si focalizza in primis su aspetti sociologici piuttosto che finanziari; in particolare sul “rapporto tra religione, strumenti, principi e iniziative legati all’economia e integrazione sociale delle comunità musulmane nella diaspora” (pp.17). In sostanza l’intento di approfondire temi che molto hanno a che fare con la socializzazione religiosa all’economia e, più in generale, col rapporto tra economia ed etica. L’argomento chiaramente si intreccia con la questione della coerenza nei confronti della propria fede: una tensione ormai inevitabile se consideriamo il “processo di secolarizzazione che investe una porzione della […] comunità musulmana”.
Come scrivono le autrici nell’introduzione al volume, la ricerca “lungi dell’affrontare temi squisitamente bancari o finanziari, vuole entrare nelle case dei musulmani per discutere se e in quale modo, nella quotidianità di giovani e adulti, padri e madri, lavoratori, lavoratrici e casalinghe, la religione condizioni la gestione del denaro. Intende quindi affrontare il tema della finanza islamica [ndr: definibile come “l’insieme delle attività finanziarie che, seppur soggette alle leggi statali di ogni singolo paese, sono svolte senza infrangere i principi della shari’a” (pp.34)] in Europa, e in particolare in Italia, offrendo ai lettori esempi concreti della sua applicazione nei contesti di immigrazione: dall’acquisto della casa all’investimento in progetti di impresa considerati haram, dall’utilizzo della zakàt per il welfare comunitario alla socializzazione a questi strumenti della seconda generazione” (pp.19). Uno degli aspetti più interessanti di questo viaggio nel mondo della finanza islamica, messa per la prima volta in pratica negli anni Sessanta tra Egitto, Algeria, Malaysia e Dubai, è che “l’accoppiata tra shari’a e affari si sta rivelando vincente dal punto di vista della resilienza dei suoi strumenti in situazione di stress finanziario globale” (pp.26). In altri termini un particolarissimo strumento competitivo che, come scrive Nahed Caracalla, potrebbe diventare presto un “pio concorrente per le banche di d’affari”. L’importante semmai è non interpretare le indicazioni della legge islamica secondo una visione social-comunista. La realtà è ben diversa: è semmai la previsione di un sistema di tipo capitalistico, dotato però di salvaguardie fondamentali per assicurare giustizia sociale ed economica, volto a correggere e prevenire disuguaglianze eccessive nella ricchezza e nel reddito. In questo senso bisogna leggere i fondamenti religiosi della finanza islamica, quali il divieto di ribà (interessi certi sui prestiti), il rifiuto di ghànar (l’irragionevole incertezza), il rifiuto di maysis (speculazione), il rifiuto di haram (comportamenti proibiti dal Corano); e da qui il legame tra transazioni finanziarie e attività economica reale, il legame tra utente e gestore nella umma, la condivisione dei profitti e delle perdite (profit and loss sharing).
Le due autrici notano infatti che proprio la condivisione dei rischi e la privatizzazione dei profitti è stata l’accusa al sistema finanziario convenzionale in seguito alle crisi degli ultimi vent’anni, “in particolare dopo il salvataggio di alcune banche da parte dei governi dei Paesi occidentali, in Europa come negli Stati Uniti” (pp. 76). Ben diverso l’approccio con gli strumenti considerati leciti dalle banche islamiche. Ad esempio il contratto murabah “prevede che l’istituzione finanziaria compri il bene desiderato dal cliente e glielo riveda mediante pagamenti mensili al prezzo originale più una piccola commissione, senza penali in caso di ritardi nel pagamento delle rate”. Nel mudaraba, un finanziamento di attività economiche produttive, poi “la banca fornisce le risorse in denaro e il cliente le competenze e il saper fare: in questa forma di società i profitti sono condivisi secondo una percentuale predeterminata in partenza” (pp.78). In sostanza delle formulazioni che trasformano il rapporto creditore-debitore in un rapporto tra soci, in cui ognuno apporta nella società quello di cui realmente dispone.
La ricerca di Roberta Ricucci e Valentina Moiso, come anticipato, prosegue poi nell’analizzare il cosiddetto “indotto” dell’Islam, il confronto intergenerazione tra vecchi e nuovi immigrati e, grazie allo strumento dell’intervista in profondità, l’evoluzione del rapporto tra cittadini di fede islamica, magari sulla strada di una piena secolarizzazione, e istituti di credito. Di sicuro “l’immaginario che vuole i musulmani orientati dalla religione anche per quanto riguarda le scelte economiche va sfumato” (pp.142), non fosse altro che soltanto alcuni aspetti delle ricadute della fede nella sfera dell’economia sono note agli stessi fedeli; e nel contempo “gli intervistati mostrano una capacità di gestire con disinvoltura la relazione con le banche da un lato e di maneggiare abilmente i vincoli haram (proibiti) posti dalla religione” (pp.144). Le conclusioni dello studio sono in qualche modo rassicuranti, soprattutto se pensiamo a tutti i problemi che ci dicono causati dal multiculturalismo: “la banca e il minareto sembrano poter agevolmente convivere in Italia” e nel contempo “la presenza di esperienze legate all’Islam nell’economia e nella finanza non sono a oggi percepite come particolarmente problematiche (pp.146).
Edizione esaminata e brevi note
Roberta Ricucci, è professore associato e docente di Sociologia dell’Islam all’Università di Torino. Tra le sue ultime pubblicazioni: Diversi dall’Islam. Figli dell’immigrazione e a altre fedi (Il Mulino 2017), Cittadini senza cittadinanza. Immigrati, seconde e altre generazioni: pratiche quotidiane tra inclusione ed esclusione (Seb 27 2015).
Valentina Moiso, assegnista all’Università di Torino, è dottore di ricerca in Ricerca sociale comparata. Ha svolto ricerche in ambito di sociologia dell’ambiente e del territorio, finanziarizzazione e vulnerabilità sociale, fenomeni mafiosi e relazioni di collusione. Ha pubblicato di recente: Economia del tessile sostenibile: la lana italiana (con E. Pagliarino e M. Cariola, Franco Angeli 2016).
Roberta Ricucci, Valentina Moiso,“La banca e il minareto. Mondo islamico e finanza etica ”, EDB (collana “P6 Lapislazzuli”), Bologna 2017, pag. 160.
Luca Menichetti. Lankenauta, novembre 2017
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