Lunedì 11 settembre 2017
Non ci sembra vero di svegliarci e di essere ancora ragionevolmente asciutti. La tenda ha retto e quando usciamo vediamo un cielo terso, le nuvole sono arrivate con il buio e se ne sono andate con l’alba, come un animale notturno.
Per colazione ci spostiamo su una roccia piatta là vicino: apro un pacchetto di Bisko, popolari biscotti senegalesi, tondi, molto piccoli, con il bordo leggermente rialzato. Lo spazio creato dal bordo è perfetto per versarci della marmellata e io ne ho portato un vasetto all’ibisco. La temperatura è fresca ma durerà poco, presto il sole farà evaporare l’acqua piovana sulle piante creando così umidità.
Approfittiamo della frescura per cercare un sentiero di cui ci ha parlato Dustin e che dovrebbe condurre a destra della cascata, su un grande altopiano che secondo lui fa già parte del territorio della Guinea. Noi non vediamo nessun sentiero ma con un pesante bastone cerchiamo ugualmente di creare un passaggio nella vegetazione. La direzione sembra giusta ma sono irrequieto, serpenti come quello che abbiamo visto ieri possono nascondersi in ogni angolo. Alla fine desistiamo, ma quando ci giriamo ci accorgiamo di essere sensibilmente saliti di quota e il paesaggio che ci si presenta è valso il rischio: un’unica grande distesa verde, vergine, incontaminata. Un vero e proprio paesaggio da documentario.
Scendiamo e decidiamo di deviare le nostre brame esplorative verso la cascata. Vestiti solo dei nostri costumi da bagno cominciamo a risalire il corso d’acqua. Ci arrampichiamo sulle rocce, attraversiamo le rapide più basse e ci aggrappiamo ai rami più vicini. Intorno alla cascata c’è una grande pozza spazzata dagli incessanti schizzi prodotti dall’impatto dell’acqua con la superfice. Non riusciamo ad arrivarci, gli schizzi sono troppo forti e non si riesce nemmeno a tenere gli occhi aperti. Restiamo qualche minuto seduti su una roccia ad ammirare questo raro spettacolo che pochissimi devono aver avuto il piacere di vedere. Se per noi stranieri arrivare qui è ancora oggi così difficile, chissà come lo era in passato.
Quando torniamo alla tenda chiamiamo Kikela per dirgli che venga a prenderci sulle quattordici, considerato che poi avremo bisogno di quattro ore per tornare fino alla strada principale e che il sole cala intorno alle diciannove e mezza, le quattordici è l’orario più ragionevole. Purtroppo però ci scontriamo con uno dei tipici comportamenti senegalesi: non importa quante volte uno si raccomanda, loro diranno sì, annuiranno, e poi faranno di testa loro. Aliou, il genero di Kikela, arriva alle dodici, quando siamo ancora in acqua a fare il bagno e la tenda è montata. Jamie riesce a fargli capire il malinteso, lui per tutta risposta dice che non vuole aspettare, andrà a farsi un giro e tornerà alle quattordici. Il mio sospetto è che voglia tornare al villaggio per pranzare e che non sarà mai qui per le quattordici, avevo ragione e lo rivediamo solo alle sedici e dieci.
Nel frattempo noi abbiamo pranzato con i nostri panini al tonno, Jamie ha tartassato di chiamate Kikela, insultandolo sia in wolof che in inglese, ha avuto un breve attacco di frustrazione che ha calmato con un lungo bagno nella pozza e io ho cercato d’ingannare l’attesa facendo saltare sassi sull’acqua.
La situazione a questo punto è complicata: abbiamo tre ore mezza di luce ma quattro ore di strada da percorrere. Abbiamo chiamato lo stesso taxi di ieri affinchè ci venga a prendere, ma dopo i problemi avuti con Kikela non ci stupirebbe affatto se non si presentasse.
Carichiamo gli zaini in spalla e partiamo a passo spedito. In poco tempo siamo entrambi imperlati di sudore e pure la bandana che ho intorno alla fronte non riesce più ad assorbirlo. Jamie si dimostra ancora una volta una ragazza tosta nonostante le gambe molto più corte delle mie, tiene il passo e non si lamenta. Riattraversiamo il ponte tibetano e per due ore camminiamo veloci senza fermarci nemmeno per bere. Alle diciotto e quindici, esattamente due ore dopo aver lasciato la cascata, siamo a Worige, il villaggio di Kikela, a metà strada.
Abbiamo già il dente avvelenato nei suoi confronti e in più ci tocca pure aspettarlo per dieci preziosi minuti mentre torna dai suoi campi. Lui arriva con la sua bicicletta e si scusa dicendo che era venuto a cercarci per strada, palese menzogna visto che la strada è solo una e ci avrebbe incontrato per forza. Lo accogliamo freddamente e lui sembra capire di averla fatta grossa. Riprendiamo la nostra marcia forzata, Kikela scambia qualche parola con Jamie, lei gli dice senza mezzi termini che siamo incazzati e che non è così che si trattano dei visitatori. Quando lui poi chiede notizie degli ultimi duemila franchi che dovremmo dargli lei gli dice chiaro e tondo che non li avrà, Kikela allora ammutolisce e non ci rivolge più la parola.
Le spalle cominciano a farmi seriamente male, le gambe reggono ancora ma sento le energie diminuire rapidamente. Tiro fuori l’arma segreta: anacardi. Sono molto comuni in Senegal, almeno tra i bianchi visto che per i locali costano troppo, sono pieni di energia e placano subito l’appetito, perfetti per quando si viaggia.
Jamie mette il suo zaino sulla bicicletta di Kikela e così può andare più veloce. L’aria si è fatta leggermente più fresca e la luce del tramonto intorno a noi è spettacolare, le radure erbose sono letteralmente infuocate, peccato non avere tempo per godersele con calma.
Verso le diciannove e trenta comincia a far buio e noi lo sentiamo come un cane rabbioso che c’insegue e che si avvicina sempre di più. D’istinto cominciamo a percorrere alcuni tratti di corsa, faccio notare a Jamie che la situazione mi ricorda una scena del Signore degli Anelli – Le Due Torri, quando Aragorn, Gimli e Legolas inseguono la truppa di orchi che ha rapito Merry e Pipino per giorni interi senza quasi fermarsi. Con il fiato che mi resta comincio a canticchiare uno dei motivi della colonna sonora e la scena diventa improvvisamente più epica.
Sono le diciannove e quarantaquattro quando arriviamo alla strada, ormai è buio, siamo fradici di sudore, senza più fiato in corpo e con le gambe che tremano. Kikela ci saluta senza troppo affetto e noi facciamo lo stesso. Con enorme sollievo vediamo il nostro tassista qualche centinaio di metri più avanti.
Quando lo raggiungiamo gli facciamo le feste come due cagnolini, ce l’abbiamo fatta, stiamo tornando a Kedougou! Ora non mi resta che chiamare il proprietario del campement per dire che stiamo arrivando, ma l’imprevisto è sempre dietro l’angolo: la struttura è piena. Lui ce ne segnala un’altra poco distante e così dopo un’ora di ballonzoli e buche ci facciamo lasciare davanti a quest’ultima. Entriamo, ma pure questo è pieno. Trovare due strutture piene non mi è mai successo, nemmeno in alcuni dei posti più turistici al mondo e doveva capitarmi a Kedougou? Uno dei posti meno conosciuti di un paese africano che molti non sanno nemmeno dove si trova?
Per fortuna ci viene segnalata una terza alternativa: un hotel che probabilmente costerà un capitale ma non importa, a questo punto va bene tutto. Prendiamo un taxi e arriviamo allo stadio, dove si trova il suddetto hotel: la struttura è carina e ben tenuta e il prezzo non è alto come mi aspettavo. La camera non ha finestre, odora di chiuso e sembra non essere stata usata da un bel po’, ciononostante ci sembra il paradiso.
Mi butto in doccia direttamente con i vestiti che ormai sono composti principalmente da sudore, dai sandali e dai piedi viene via un denso strato di fango e terra. Jamie ha due gigantesche vesciche sotto i piedi ma è un problema di cui ci occuperemo domani. Abbiamo a malapena le forze per mangiare un po’ di pane e marmellata prima di collassare a letto distrutti. Ci diamo un cinque per essere riusciti a tornare a Kedougou nonostante la partenza ritardata e poi cadiamo quasi subito in un sonno pulito e più che meritato.
Francesco Ricapito Settembre 2017
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