Alberto Sebastiani su “Repubblica”, riguardo “L’uomo che non riusciva a morire” ha giustamente evocato Dino Buzzati. Di sicuro nessuna intenzione di innalzare il pur bravo Laudadio ai vertici della letteratura italiana, ma è indubbio che la vicenda paradossale e l’incipit del raffreddore, del naso malato, inizialmente potranno far pensare al racconto “Sette piani” e poi al film di Tognazzi. Soltanto un’impressione perché, a nostro avviso, Laudadio ha sviluppato il suo racconto in maniera personale nonostante i precedenti illustri. Il reportage dal confine, come lo ha definito lo stesso autore, probabilmente prende il via un po’ sottotono, forse in linea con la sottovalutazione del male da parte dell’uomo “che non riusciva a morire”. Prima un raffreddore, forse una forma allergica e poi la scoperta che la macchia sotto il naso altro non è che un piccolo adenocarcinoma, un tumore infantile sviluppato in età adulta. Da quel momento il vero inizio del dramma vissuto con lucidità e nel contempo con inaspettata ironia. Un percorso di malattia sfortunato e nemmeno troppo complicato che il nostro protagonista vive prima con speranza, quasi con spavalderia, e poi con apparente rassegnazione. Nel mezzo la moglie, gli amici e i familiari che rappresentano gli interlocutori più spauriti in una vicenda medica e personale ai confini della realtà, quella appunto di un “Uomo che non riusciva a morire”. Laudadio magari non ci regalerà una prosa indimenticabile ma, forte dell’esperienza professionale di attore e uomo di teatro, ha gioco facile a raffigurare le stranezze della vita, e soprattutto di una morte annunciata, in un alternarsi continuo di dramma, commozione e pura comicità. Un alternarsi che non ci fa neppure parlare di grottesco, che in realtà è più squilibrio di elementi. Al di là dell’anomalia di un moribondo che non muore, più corretto allora interpretare la vicenda come lo sviluppo di un apparente paradosso: un malato che si deve fare carico dei propri cari ma non ci riesce, soprattutto perché sopravvivere può diventare molto ingombrante e tale da mettere a dura prova l’amore di coloro che gli stanno vicino. A farne le spese innanzitutto la devota moglie, poi una volta innescata l’agonia cronica forse neanche troppo devota, e in seguito tutti gli altri: “Mio fratello fu l’unico, a un certo punto – mia moglie era già andata via di casa – a dirmi apertamente che stavo diventando un notevole cacazzi, usò proprio questa espressione, e che avere avuto un cancro e subire un trattamento non significava, necessariamente, essere diventato un eroe” (pp.67).
Il “traseunte” (pp. 68) quindi, dopo la debilitante chemioterapia, pare inizialmente crogiolarsi nella “confidenza con la morte”, fino ad allontanare la sua Anna. Poi, nonostante gli atteggiamenti da cacazzi, gli affetti hanno la meglio e la moglie torna; ma è il male a non andar via. A quel punto il protagonista, ormai rassegnato, si prepara al peggio e soprattutto si impegna a preparare al peggio i suoi cari: “In fondo erano le richieste di un condannato a morte e Anna era brava ad assecondarmi […] Poi cominciai la mia danza macabra. E ciò che doveva essere la fine, fu un inizio” (pp.107). E’ allora che il “transeunte” si rivela più resistente che mai: le agonie si susseguono, con capitoli di vita moribonda che passano, significativamente, da “La prima volta che sono morto” a “Mi sono rotto il cazzo”. Sempre più devastato da morti annunciate, arresti cardiaci, metastasi che avanzano fino al limite, si fermano e ancora si rianimano, il nostro si ritrova circondato da i suoi parenti increduli, pazienti che lo vedono come un miracolo vivente, medici e infermieri che non lo sopportano più; e con l’algido manager dell’ospedale che di fatto auspica una punturina per liberarsi dell’ingombro. Intanto la moglie ha aperto un blog di gran successo, “Testimoni di confine”, e si consola nel promuovere la solidarietà nei confronti di casi umani e di moribondi meno resistenti del marito. Certo è che il fine vita del nostro protagonista, ormai relegato in una specie di sgabuzzino, proprio non arriva. Anche la lucidità del racconto via via viene meno, non fosse altro che il punto di vista rimane quello di un “transeunte” che pure si accorge di quello che succede ai suoi cari, e della nuova vita della moglie. Dal dramma al comico e poi di nuovo al dramma; questa volta causato non dalla morte ma da un’imbarazzante sopravvivenza.
Edizione esaminata e brevi note
Tony Laudadio, formatosi alla Bottega di Gassman, è attore di teatro e di cinema (Risi, Moretti, Sorrentino) ed è autore di testi teatrali e di opere letterarie. I suoi romanzi, Esco (2012) e Come un chiodo nel muro (2013) sono editi da Bompiani.
Tony Laudadio, “L’uomo che non riusciva a morire “, NN Editore (collana ViceVersa), Milano 2015, pp. 160.
Luca Menichetti. Lankelot, ottobre 2015
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