“A volte immaginava di essere il solo membro dell’equipaggio di un’astronave in allontanamento, già distante anni luce dalla Terra e impossibilitata a tornare indietro, condannata a non far mai ritorno, incapace perfino di raggiungere la propria destinazione nell’arco di una vita umana, ma ancora collegata al pianeta natale da quell’arco di radiazioni elettromagnetiche in espansione, salendo attraverso gli strati, simili a quelli di una cipolla, delle vecchie trasmissioni radio, viaggiando indietro nel tempo mentre procedeva in avanti nello spazio, ascoltando voci di persone morte da tempo, tornando indietro verso la prima trasmissione di Marconi e poi verso il silenzio”. p.43
Dan Simmons è uno scrittore difficilmente collocabile in un genere, ma una cosa riesce facile intuire al termine del suo romanzo forse più complesso e celebrato, ancorché non conosciutissimo tra i nostri confini (come egli stesso, del resto), come L’estate della paura, ovvero che si trova perfettamente a suo agio con la suspense e col mistero. L’estate della paura, peraltro, non è solo una storia horror come struttura e titolo lasciano semplicemente immaginare, ma un bel romanzo di formazione finemente tessuto e abilmente intrecciato, tanto da ricordare per fascinose assonanze narrative un capolavoro di genere (horror e romanzo di formazione, per l’appunto) come IT di Stephen King, di cinque anni precedente. Lo stesso King, peraltro, ha subito manifestato il suo estremo gradimento per quest’opera, definendola addirittura “uno dei pochissimi libri che non si può non leggere”. Datato 1991 e basato su suggestioni evidentemente autobiografiche, scorrendo la vita e le esperienze dell’autore, L’estate della paura ha consentito a Simmons di sondare un genere che lo allontanasse momentaneamente dal fantascientifico, suo territorio preferito, e che gli permettesse di mettere appunto un racconto complesso e sfaccettato che si traduce in una suggestiva fiaba nera sulle paure dell’infanzia che improvvisamente si materializzano.
Siamo a Elm Haven, cittadina rurale dell’Illinois, nel 1960. È estate, e la scuola, per Mike, Dale, Duane, Harlen e Kevin, cinque inseparabili amici dodicenni, è appena finita. È arrivato per loro il tempo dello svago e del divertimento; ma tra partite di baseball, giochi tra i campi e corse in bicicletta, qualcosa di terribile e ancestrale si nasconde in agguato. Una mostruosa entità senza tempo che uccide i ragazzi della Old Central School e che ha già ucciso sessant’anni prima. I cinque ragazzini, da subito presi di mira da pericolose e strane presenze metamorfiche che appaiono soltanto di notte, cercano di capire cosa sta accadendo ad Elm Haven. Si metteranno così a indagare, senza l’aiuto degli adulti, alcuni dei quali probabilmente coinvolti, affrontando mostri reali e immaginari, paure inconsce e abissi profondi, consapevoli che loro sono le prede e che soltanto uniti possono sconfiggere quel male. Vivranno così il loro passaggio a un’età più adulta misurandosi con un arcano pericolo che non darà loro alcuna tregua.
Come accennato in sede d’introduzione e come d’evidenza dalla trama, le similitudini con IT ci sono e sono ben visibili. L’età dei bambini, prima di tutto, e il loro rapportarsi a un orrore oscuro e ancestrale che è la materializzazione di paure infantili; l’estate, come stagione in cui il male si manifesta; le forme mutevoli, quasi allegoriche del male stesso; l’impossibilità degli adulti di capire e comprendere quello che solo occhi fanciulli possono vedere e svelare; il territorio agreste e cittadino, sperduto e lontano dai grandi centri: la Elm Haven di Simmons non è poi così distante, idealmente, dalla Castle Rock di King, se non per il fatto che qui siamo nell’Illinois e lì nel Maine. Ciò che distanzia maggiormente i due libri è il punto dove L’estate della paura trova la sua originalità di genere, ovvero un incedere più attendista e nostalgico, dove gli avvenimenti cruciali, a differenza di IT che subito ti catapulta nell’orrore, si snodano nella seconda parte del libro e sono descrittivamente più cruenti e marcati rispetto al romanzo dello scrittore del Maine. Certo la personificazione del male di Stephen King, l’angoscioso e incubotico Pennywise, resta uno spauracchio infantile insuperabile, nei nostri ricordi di lettori adolescenti, ma le diverse emanazioni dell’orrore immaginato da Simmons – il male derivante da un’antica stele egizia, fusa poi in una campana voluta dalla dinastia papale dei Borgia e successivamente collocata e solo apparentemente dimenticata in cima alla Old Central School – sono comunque degne di nota e particolarmente suggestive all’interno dell’impianto narrativo costruito dallo scrittore.
Il racconto di formazione è centrale all’interno del romanzo, come per lo stesso King del resto – e qui non c’è solo IT, ma si respirano le atmosfere di The Body, storia breve contenuta nel libro A volte ritornano -, non meno della vicenda orrorifica, ideale per connettere alla storia le caratterizzazioni ben bilanciate dei personaggi sulla ribalta, quasi tutti ragazzini. Gli adulti, in effetti, sono davvero marginali, se si eccettuano alcune caratterizzazioni peraltro circoscritte in alcuni capitoli del romanzo, e le psicologie dei fanciulli vengono affrontate con sapienza da vero educatore, mestiere che non a caso Simmons aveva praticato prima di darsi totalmente alla scrittura. Il contesto rurale è anch’esso descritto con trasporto e dovizia di particolari, non fosse altro perché è lo stesso contesto che Simmons visse alla medesima età dei suoi giovani protagonisti. L’elemento autobiografico è in effetti evidente, sia per consonanze temporali che per ricordi e suggestioni personali che è facile immaginare l’autore dissemini per l’intera narrazione. Un personaggio in particolare, Duane, è possibile supporre sia molto vicino al Simmons dodicenne, con la sua viva intelligenza, il suo amore per la letteratura e quella voglia di essere uno scrittore – ciò lo rende una sorta di disadattato, per l’età, rispetto ai suoi quattro amici – che nella storia che ci viene raccontata, per tragici motivi, resterà imprigionata nella fanciullezza. Il risultato è un romanzo coinvolgente, il quale nonostante i diversi punti di contatto che emergono rispetto al capolavoro di King (una differenza evidente è il volume: qui sono poco più di 600 pagine, IT sono oltre 1400), mantiene una sua forte personalità e regala una prosa scorrevole e non banale, a tratti anche sofisticata (restituita da una puntuale traduzione di Annarita Guarnieri) che non si nega nemmeno alcuni passaggi lirici. L’estate della paura è probabilmente, ancora oggi, uno dei titoli di punta della Gargoyle; un’opera non solo per appassionati di genere, ma anche per chi cerca una letteratura che sappia coinvolgere padroneggiando con autorevolezza diversi registri narrativi ed emotivi.
“Dale lasciò vagare lo sguardo sui campi che si stendevano verso est, oltre l’orizzonte bordato di alberi sfumati dalla caligine, e immaginò che laggiù ci fosse Peoria – distante sessanta chilometri, al di là delle colline, valli e tratti di bosco, adagiata nella sua valle fluviale e scintillante di mille luci – solo che laggiù non c’era traccia di bagliori, c’era soltanto l’orizzonte sempre più buio, e lui non riusciva veramente a immaginare la città. Invece, sentiva il sommesso frusciare e sussurrare del granturco; dal momento che non c’era brezza, si disse che forse quello era il suono che produceva crescendo, salendo verso l’alto fino a diventare il muro che presto avrebbe circondato Elm Haven, isolandola dal mondo”. p.31
Federico Magi, dicembre 2013.
Edizione esaminata e brevi note
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