“Vedi, papà, io penso che noi siamo proprio il contrario delle lucertole. Perché il pezzo di coda che abbiamo perso, a noi non solo non ci ricresce, ma continua a farci male, come l’arto fantasma degli amputati”. (pag. 158)
Questo breve brano, tagliato dell’ultima parte, è riportato anche sulla quarta di copertina del secondo romanzo della scrittrice fiorentina Erika Bianchi, Il contrario delle lucertole, edito da Giunti. È da qui che il titolo del libro è ripreso e la scelta è stata più che appropriata perché è un romanzo sulle mancanze, questo, sulle perdite, su come possano dilagare, essere inarrestabili, possano dare il la a un domino le cui tessere continuano a cadere a distanza di tempo, coinvolgendo sempre più persone. Si prende un’occasione, il Tour de France del 1948, un giovane meccanico italiano al seguito di Bartali, la leggenda, una cameriera ragazzina francese, l’incontro di una notte e il distacco, le tappe, la corsa. Ma la ragazzina diviene madre, il giovane torna al Tour e la rivede ma non riconosce la figlia – la spinta alla prima tessera – la ragazzina cresce da sola la figlia e dopo dieci anni va in Italia a ritrovarne il padre, che ha una famiglia, un figlio legittimo. La bambina rifiutata cresce mancante di un padre che vede cattivo ma che la attrae, seguono il ‘68 e gli anni di piombo, il matrimonio con un biologo professore all’università, il trasferimento a Roma, la nascita di due figlie per dovere più che volere – le tessere cadono – l’abbandono della casa, le figlie a cui manca, il marito a cui manca, il divorzio e infine un francese – cadute le tessere mancano ancora – fino a che.
Come appare semplice e conseguente la concatenazione degli eventi, ma sono vite, sono anni e sentimenti. Quali sono queste vite? C’è Lena la ragazzina, c’è Zaro il giovane, c’è Isabelle la figlia, c’è Elvira la moglie, c’è Giovanni il fratellastro, c’è Attilio il barista amico, c’è Carlo il biologo, ci sono Marta e Cecilia-Cecertola le figlie, c’è Jules il francese, c’è Pablo l’argentino, c’è Elena nipote. La scrittura di Bianchi le asseconda, è una scrittura partecipe, che si avverte vicina a ciò che sta raccontando, a volte forse troppo, come se, in una sorta di insicurezza, sentisse il bisogno di insistere appena nel racconto con un particolare, un dettaglio non del tutto necessario. Un’impressione, questa mia, e niente più, perché l’autrice tiene sempre il controllo della narrazione, le storie di questa famiglia allargata sono tessere del puzzle che costruisce sotto gli occhi di chi legge.
Diamo un’occhiata alla costruzione: il romanzo comincia (poteva essere altrimenti?) dalla coda, anzi dall’epilogo, per poi tornare alla coda. Ecco Isabelle, nel 2011, che ricorda gli eventi che hanno portato alla sua nascita, mentre altrove c’è un funerale. Quindi i capitoli procedono all’indietro fino al 1964, per poi tornare nel 2011 e avere una coda nel 2016. Nonostante la centralità di Isabelle riesce a essere anche un romanzo corale, con la scrittura che alterna la terza alla prima persona, dando voce a più personaggi e moltiplicando i punti di vista; così si realizza quanto siano le mancanze ciò che spinge ognuno di loro verso il prossimo passo, e la mancanza può generare rabbia divoratrice che tutto consuma, può generare comprensione e accettazione, catene antisismiche per resistere ai terremoti, può generare distacco, perché nel distacco si avverte meno il dolore, ma soprattutto le mancanze rimangono, sono chiodi che non si scacciano, solo si può imparare, forse, a conviverci.
Un romanzo denso di storie e di emozioni, semplice e non facile, duro come la “roccia bretone” e dolce come le colline toscane.
“E insomma in questo pezzo di famiglia dove le leggi che regolano i legami tra padri e figli, tra madri e figlie, sono sovvertite fin dal primo giorno, sconvolte in favore di altre leggi su cui si cresce sbilenchi e disgregati; in questa frangia di gente meticcia che si è aggiunta alla vita di Nanni come un pezzo di casa abusiva, come il gabinetto sul ballatoio pencolante della prima casa di Isabelle e Carlo a Trastevere, anche qui c’è stato e c’è amore, c’è stata e c’è vita dopo l’abbandono, la morte.” (pag. 45)
Edizione esaminata e brevi note
Erika Bianchi vive e lavora a Firenze, dove insegna Storia Antica e Archeologia in varie università americane. Il suo amore per l’antico è bilanciato da un entusiasmo uguale e contrario per le espressioni culturali moderne e contemporanee: le lingue, l’arte, il cinema e, soprattutto, la letteratura, di cui è anche traduttrice. Ha esordito nel 2010 con Sassi nelle scarpe (Dario Flaccovio Editore).
Erika Bianchi, Il contrario delle lucertole, Giunti, 2017 euro 16
Un’intervista all’autrice, di Annamaria Trevale sul sito Sul Romanzo.
Una recensione su Poetarum Silva, di Giovanna Amato.
ab, dicembre 2017
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