Ormai è mattina inoltrata e decidiamo che è meglio informarsi se c’è un modo per arrivare a Lerik. Ripercorriamo il ponte pericolante e dopo venti minuti di cammino arriviamo al bazar centrale, che funge pure da stazione per le marshrutke. Si tratta di pulmini condivisi che gli abitanti usano per spostarsi. Non essendoci un sistema di trasporto pubblico le marshrutke e i taxi sono gli unici modi per viaggiare quando ci si trova fuori dai principali centri urbani. Il bazar centrale a Lankaran non è altro che una parte della città dove sono concentrati la maggior parte dei negozi, davanti ai quali in ordine sparso sono parcheggiate le marshrutke e i taxi. Le strade sono ben lontane dall’essere in perfette condizioni e il fango in molti punti la fa da padrone indiscusso. Oltre ai negozi di vestiti e di alimentari ci sono numerose bancarelle con frutta e verdura. Nel complesso c’è abbastanza confusione e, visto che ci sono pure numerose marskrutke parcheggiate, Natasha decide di chiedere informazioni ad una signora, la quale molto gentilmente ci dice di seguirla e ci porta da uno dei guidatori, anche lei infatti sembra non sapere bene quale sia la marshrutka che dobbiamo prendere. Pure il guidatore sembra non avere le idee chiare. Vedendoci tutti e quattro praticamente in mezzo alla strada un signore che passa per di là viene ad aiutarci e, quando scopre che vogliamo andare a Lerik, spiega qualcosa alla signora. All’improvviso tutti e due insieme ci indicano una marshrutka che sta passando davanti a noi proprio in quel momento. L’autista si ferma per farci salire e in pochi secondi la signora ci dice di scendere quando il guidatore ci avvertirà e da là prendere un taxi. Ci raccomanda di non pagare il taxi più di otto manat e ci saluta. Noi ringraziamo calorosamente e saliamo nella marshrutka. Usciamo dal centro della città, passiamo di fianco all’aeroporto di Lankaran, (ebbene sì Lankaran ha un aeroporto!) e dopo circa quindici minuti arriviamo ad un incrocio dove ci sono numerosi taxi, il guidatore ci dice di scendere, noi gli diamo quaranta centesimi a testa come ci ha detto la signora e scendiamo. Nemmeno il tempo di toccare terra che un tassista ci chiede dove vogliamo andare. Per sette manat dice che ci può portare a Lerik. Sorpresi di aver trovato un tassista che non cerca di fregarci accettiamo subito. Insieme a noi sale in macchina un altro signore che evidentemente va a Lerik come noi. Il nostro tassista avrà poco meno di trent’anni, ha una faccia paffuta e perennemente arrossata ed una voce piuttosto stridula ed incredibilmente fastidiosa. La macchina è naturalmente una vecchia Lada dai sedili scomodi ma dall’affidabilità indiscussa. A tutta velocità usciamo dai confini di Lankaran e ci dirigiamo verso le montagne che vediamo all’orizzonte. Il tempo è un po’ migliorato, la nebbia si è diradata e, anche se ci sono molte nuvole, ogni tanto fa capolino qualche timido raggio di sole. Il paesaggio sempre molto verdeggiante passa lentamente dalla pianura alla collina, la strada è in condizioni accettabili, ma dal fango ai lati capiamo che negli ultimi giorni deve aver piovuto parecchio.
Vediamo ogni tanto dei cantieri stradali e capiamo che probabilmente stanno costruendo una strada più larga per collegare Lankaran ai paesi sui monti. Qua e là ci sono molte case e fattorie ma non attraversiamo molti centri abitati, tuttavia come al solito, a cadenza regolare, vediamo lungo la strada una gigantografia di Heydar Aliyev. Il viaggio sarebbe estremamente piacevole se non fosse per la radio, sintonizzata su fastidiosa musica azera: in genere non ci si può lamentare eccessivamente dello stile di guida dei tassisti, se non fosse per la loro abitudine di ascoltare alla radio musica locale, che è una specie di micidiale miscuglio tra musica araba e turca, uno stile che può anche piacere ma che nella maggior parte dei casi, a chi non ci è abituato, causa solo un persistente mal di testa. Quando le colline cominciano a farsi più alte e la valle inizia a restringersi vediamo un piccolo torrente che scorre sul fondo. Notiamo pure molte strutture per turisti, hotel, campeggi, ristoranti e case da tè che ora sembrano chiuse, ma che probabilmente d’estate devono essere una delle mete preferite degli abitanti di Lankaran. Man mano che andiamo avanti saliamo di altitudine e ritorniamo così in mezzo alle nuvole, con il risultato che la nostra vista sul paesaggio si riduce notevolmente. Quando ormai mancano pochi chilometri la strada sale bruscamente e non appena vediamo le prime case di Lerik superiamo il banco di nubi ed intorno si apre un bel paesaggio montano col cielo sereno.
Lerik è un grosso villaggio di montagna che si estende in modo piuttosto irregolare lungo il bordo di una valle, non ha particolari attrazioni turistiche, se non il magnifico paesaggio da cui è circondato. Tuttavia in Azerbaigian Lerik e le zone limitrofe sono celebri per l’elevato numero di ultracentenari, che in effetti, statistiche alla mano, sono ben più della media. Un esempio importante è certamente Shiralev Muslimov, un abitante di Lerik, che alla sua morte nel 1973, aveva la bellezza di 168 anni. Anche se ufficialmente ci sono incertezze sulla sua esatta data di nascita e questo record non è mai stato riconosciuto, si tratta comunque di una delle persone più longeve della storia e in paese si trova anche un piccolo museo dedicato ai centenari vissuti qui intorno. Il nostro tassista ci lascia nella piazza principale di Lerik, di chiara recente costruzione: ha una forma rettangolare ed è dominata da un alto palo con in cima la bandiera dell’Azerbaigian e ovviamente da una statua del defunto presidente. Ai lati della piazza, incredibilmente ben curata e pulita rispetto al resto del villaggio, si trovano l’ospedale, il municipio, il museo di storia e pure la stazione di polizia, insomma tutti gli edifici principali sono stati concentrati qui. Secondo la nostra guida l’unico posto dove si può passare la notte si trova da queste parti, chiediamo informazioni ad un gruppo di uomini là vicino, uno di loro capisce al volo e ci dice di seguirlo. In due minuti ci porta in una grossa casa con un bel giardino interno, ci dice di aspettarlo all’entrata e dopo pochi istanti ritorna in compagnia di Hussein, un vecchio signore sui settantacinque anni dall’espressione vivace e dai modi energici. Hussein parla russo e ha la strana abitudine di enfatizzare in modo particolare la parte finale dell’ultima parola della frase. Ci invita nella sala da pranzo, il suo infatti è un piccolo ostello, ma funziona pure da tavola calda. La sala da pranzo ha quattro tavoli, è ben illuminata da ampie finestre e ha un’atmosfera molto accogliente. Ci sediamo ad un tavolo e subito una donna, che non capiamo se sia la moglie o la figlia di Hussein, ci porta una teiera e due bicchieri, il tè in Azerbaigian è infatti la prima cosa che si offre agli ospiti. Hussein si siede con noi, per otto manat (circa otto euro) dice che può darci una camera, noi accettiamo subito, lui allora ci chiede i passaporti, perché deve registrarci all’ufficio di polizia locale. Siamo infatti a circa venti chilometri dal confine con l’Iran e qui la polizia diventa un po’ più sospettosa verso gli stranieri. Mentre Hussein esce per chiamare, due vecchiotti che sono seduti a mangiare ad un altro tavolo si girano e ci chiedono da dove veniamo. Sembrano piacevolmente sorpresi di vedere stranieri, ci danno il benvenuto e conversano per qualche minuto con Natasha. Osservo con divertimento che per accompagnare il loro pranzo hanno sul tavolo una bottiglia ormai quasi vuota di vodka, lo faccio notare a Natasha, la quale mi dice che per lei è abbastanza normale vedere queste cose. Noi accompagnamo i pasti col vino e nei vecchi domini della grande madre Russia lo si fa con la vodka. Paese che vai usanze che trovi. Quando Hussein torna ci chiede se siamo sposati. Io avevo previsto una simile eventualità e con Natasha avevamo deciso che in caso di bisogno e per evitare problemi avremmo detto che eravamo fidanzati e che ci saremmo sposati presto, sperando che poi le domande non diventassero troppo specifiche. Hussein sembra contento di sapere che siamo fidanzati, così come i vecchi al tavolo vicino. Visto che ormai è circa l’una ci chiede se vogliamo mangiare e noi accettiamo contenti questa proposta. Non ci domanda nemmeno cosa vogliamo e dopo pochi minuti la signora ci porta un cestino di pane accompagnato da un piattino con una specie di formaggio semi-liquido con erbe e un secondo piattino con dell’insalata dal colore violaceo che ho già visto e che viene conservata in un liquido simile all’aceto. Il formaggio ha un sapore leggermente acido, ma le erbe lo contrastano bene e con un po’ di pane è veramente gustoso e fresco. Dopo poco la donna se ne ritorna con in mano due piccoli vasetti di terracotta roventi. Solo in quel momento noto che ce ne sono di simili posizionati sopra la stufa che si trova dietro di me e ricordo allora di un paragrafo letto nella guida della Lonely Planet a proposito di questo piatto: si tratta del piti, una pietanza tradizionale del Caucaso e dell’Asia centrale che praticamente funge da pasto completo. Questi vasetti di terracotta infatti vengono riempiti con cipolle, patate, qualche pezzo di carne di pecora (con tanto di parte grassa senza cui il piatto avrebbe molto meno sapore) e spezie varie. Il vasetto viene poi messo in forno per cuocere il tutto. La signora evidentemente li lascia sulla stufa per tenerli sempre pronti e al caldo.
Da quel che ho letto mi sembra che ci sia pure un sistema particolare di mangiare questa pietanza, ma non mi ricordo qual è e allora faccio la cosa più logica: tenendo il vaso con un tovagliolo di carta per non scottarmi la mano, ne verso il contenuto nel piatto. Il sapore è veramente ottimo e ricco, si sente che gli ingredienti sono tutti rustici, la carne in particolare e anche se la quantità di un solo vasetto non è molta, è comunque più che sufficiente per un pasto. Solo in seguito ricordo che il modo giusto per mangiare il piti consiste nello spezzettare del pane nel piatto, versarci sopra il brodo creando così una specie di zuppa e poi una volta finita questa mettere nel piatto le verdure e la carne e consumarli come secondo piatto. Pure Natasha sembra molto soddisfatta del piti e in breve tempo ce li spazzoliamo di gusto. Finito di pranzare Hussein ci mostra la nostra camera. Ci porta nel giardino interno, su cui si affaccia un altro edificio di forma rettangolare e con quattro porte che sono evidentemente le camere. La nostra è molto semplice, una stanza con due letti singoli, un tavolo, una mensola con una televisione e due sedie. Non c’è il riscaldamento, l’unica fonte di calore a nostra disposizione è una piccola stufetta elettrica e, come spesso capita in montagna, entrando nella camera si ha l’impressione che dentro faccia più freddo che fuori. Il bagno è fuori, si tratta di una piccola casetta nel giardino interno, un po’ spartana e di certo non profumata, ma quello c’era da aspettarselo, la cosa veramente fastidiosa è il soffitto più basso di me di almeno cinque centimetri, il quale mi costringe ad espletare le mie funzioni con la testa piegata di lato. Hussein ci chiede pure se vogliamo che ci prenoti un taxi per tornare a Lankaran domani e ci accordiamo per avere il taxi sulle nove. Oltre a questo gli chiediamo pure se è possibile avere la cena, lui ben felice ci avverte che di solito la cena è alle sei e mezza, orari da montanari. Detto questo Hussein ci lascia, noi ci sistemiamo e poi usciamo subito per fare un giro per il paese. Dietro suggerimento di Hussein ci dirigiamo verso una moschea che vediamo in lontananza e che si trova alle pendici di una specie di collina. Il cielo si è rasserenato, ma c’è un banco di nuvole che sale dalla vallata sottostante. Per strada non ci sono molte persone e tutti quelli che incrociamo ci guardano con curiosità. Le abitazioni del paese sono tutte case familiari con i loro giardini e i loro orti, alcune strade sono asfaltate, molte altre sono sterrate e fangose. Assai fastidiosi sono i rifiuti in grande quantità sia per strada che tra le case. Ogni tanto incrociamo qualche cassonetto, ma sembra che gli abitanti non li usino molto. Arrivati alla moschea imbocchiamo la strada che sale verso la cima della collina, lungo la quale vediamo due rottami di automobili che sono stati usati per far parte del recinto del giardino posto di fianco alla casa: di sicuro un modo originale per rottamare la propria automobile. Galli e galline scorazzano tranquilli per la strada e un paio di mucche ci passano di fianco senza nemmeno degnarci di uno sguardo. Man mano che saliamo le case si diradano, la strada comincia ad avere qualche tornante e, dopo circa venti minuti di ascesa, abbiamo una bella visuale sul paese, che purtroppo dura poco a causa delle sopraggiunte nubi. Proseguiamo a salire e ad un bivio decidiamo di prendere una strada sterrata, che poi finisce nel cortile di una casa e si trasforma in un sentiero che continua a salire. Mentre ci sediamo qualche minuto per riflettere sul da farsi, due uomini ci raggiungono e proseguono lungo il sentiero.
Quando ormai sono quasi scomparsi nella nebbia sento uno di loro che ci chiama e strizzando gli occhi lo vedo agitare il braccio nella caligine. Probabilmente hanno capito che vogliamo salire e hanno deciso di guidarci. Senza pensarci troppo riprendiamo a camminare, i due, appena vedono che ci stiamo muovendo, ripartono, ma stanno sempre attenti di restare visibili. Dopo dieci minuti di sentiero accidentato Natasha ha bisogno di un paio di minuti di riposo, quando le nostre nuove guide ci vedono fermi decidono di sostare per qualche minuto, vedo uno di loro che si siede e che si apre una bottiglia di qualcosa che non riesco a distinguere per via della nebbia. Quando Natasha riprende fiato ripartiamo e camminiamo per un altro quarto d’ora sempre seguendo i due uomini e la sensazione è quella di seguire due fantasmi. Alla fine demordiamo e ci fermiamo, cerco di far segno ai due uomini di andare avanti senza di noi, questi aspettano qualche minuto e poi probabilmente capiscono e ripartono. Io e Natasha ci sediamo per terra, ci mangiamo un pezzo di cioccolata e per qualche minuto restiamo immersi in questo paesaggio reso etereo e leggermente spettrale dalla nebbia. La discesa è naturalmente molto più rapida della salita, ad un certo punto incontriamo pure un pastore che rientra a casa a cavallo e cui scattiamo alcune foto di spalle. Lui se ne accorge e, mentre si allontana, si gira e ci saluta con la mano.
Quando ritorniamo alla piazza centrale del paese sono solo le diciassette, decidiamo così che, nonostante la nebbia, non è ancora tempo di tornare in ostello. Su uno dei lati corti della piazza notiamo una lunga scalinata che sale fino alla fine della pendenza laterale della valle dove si trova Lerik e pensiamo che se riusciamo a salire abbastanza in alto possiamo ritrovarci al di sopra del banco di nebbia. Cominciamo a salire la scalinata che ha un aspetto decisamente tetro, purtroppo dopo duecento metri termina e noi siamo ancora immersi nella nebbia. Con disappunto torniamo all’ostello. Siamo piuttosto infreddoliti e appena entriamo in camera accendiamo la stufetta e ci piazziamo lì davanti con un generoso pezzo di cioccolata in mano. Hussein deve averci visto tornare e dopo qualche minuto bussa alla nostra porta: è venuto a portarci un paio di coperte elettriche, ci spiega come collegarle alla presa di corrente e come regolarle. Le coperte si rivelano una benedizione, la stufetta da sola infatti non riesce a fare molto. Dopo un’altra mezz’ora Hussein torna portando un vassoio con la nostra cena, un piatto con una generosa porzione di pollo arrosto, pane a volontà e gli stessi condimenti che abbiamo mangiato a pranzo: il formaggio semi-liquido alle erbe e quella specie d’insalata viola. Al tutto ha aggiunto due mele. Ringraziamo e ci diamo appuntamento per le nove di domani quando dovrebbe venire a prenderci il taxi. Mangiamo con calma e di gusto. Il pollo è freddo ma è molto buono, così come i due condimenti. Il freddo nella stanza continua ad essere persistente nonostante la stufetta e le coperte elettriche, decido allora che è tempo di usare l’arma segreta che mi sono messo in zaino in caso di una situazione come questa: una bottiglia di vodka. Questa in particolare me l’ha portata Natasha dalla Russia e si chiama “Putinka”, ma non ha nulla a che vedere con il presidente. Passiamo il resto della serata a parlare serenamente delle nostre vite, della Russia, dell’Italia e pure dell’Azerbaigian, per accompagnare la vodka tagliamo una mela a fettine e il connubio è perfetto. Prima di rendercene conto ci accorgiamo che ci siamo già bevuti metà della bottiglia, non volendo rischiare dei postumi il giorno dopo decidiamo di dormire, la camera è ancora fredda e respirando si vede la condensa uscire dalla bocca, ma la vodka unita alle potenti coperte elettriche rende la situazione sopportabile. Prima di coricarmi esco un attimo e vedo che la nebbia si è diradata lasciando spazio a un bel cielo stellato, che però non riesco a godermi per via del freddo. Torno in camera e, cercando di tenere la testa sotto il piumone per non congelarmi la faccia, mi addormento.
Per approfondire
http://www.tripadvisor.it/Tourism-g2654131-Lerik_Lankaran_Region-Vacatio…
Francesco Ricapito, Febbraio 2015
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