Diario inedito di un ebreo olandese
“La notte di Auschwitz” è un breve testo apparso a dispense tra l’agosto 1945 e il marzo 1946 nel mensile clandestino della Resistenza neerdandese Het Baken (Il Faro). In seguito non fu più ripubblicato, solo nel 1975 apparve una traduzione in inglese e poi il testo finì nell’oscurità. Ora, dopo che tanti altri scritti di vario genere sulla Shoah sono apparsi, le Edizioni Dehoniane lo ripropongono.
Un’operazione editoriale volta a far ricordare sempre quei tragici eventi, specialmente adesso che i testimoni diretti sono in buona parte defunti e quelli che rimangono sono piuttosto anziani e subirono la deportazione da ragazzini o da bambini. Ci si avvia verso un’epoca in cui la memoria diretta, a viva voce, dei campi di sterminio – come di altri genocidi del Novecento – non ci sarà più e rimarranno invece gli scritti e le narrazioni dei parenti (figli, nipoti) di chi era sopravvissuto.
In questi anni sono state date alle stampe le più varie vicende inerenti i campi di sterminio: storie di guerra, di morte e di vita, di disperazione e di speranza che rinasce.
“La notte di Auschwitz” è, come dice il sottotitolo, un puro e semplice diario del campo e del lungo viaggio di ritorno che l’ebreo olandese Koopman ha dovuto affrontare. La vicenda potrebbe ricordare quella del nostro Primo Levi di “Se questo è un uomo” e “La tregua”, ma non ne ha la letterarietà e la profondità. Quello di Koopman è un resoconto scritto probabilmente di getto, subito dopo i fatti accaduti, quando le terribili vicende subite spingevano qualcuno a raccontare per condividere con altri la propria tragedia e farli partecipi, altri invece a chiudersi nel più profondo silenzio, nell’impossibilità di dare voce agli orrori visti e subiti. Qualcuno dei sopravvissuti ha impiegato moltissimi anni prima di parlare, quei ricordi erano troppo tragici ed era meglio seppellirli nelle zone più profonde dell’animo.
Il male subito, smisurato in questi casi, crea sempre un vulnus, una ferita incancellabile, che non può essere dimenticata, forse a volte si può approdare al perdono, ma nulla sarà mai più come prima né per chi è coinvolto direttamente, né per la Storia, che deve tenerne conto, né per la società umana stessa, che ne viene lacerata. Ciò è evidente anche nel racconto di Koopman, quando alla fine dice che per alcuni sopravvissuti fu impossibile ricostruirsi una vita.
Ritornando al nostro testo, Jo Koopman fu tra gli ultimi a essere deportato ad Auschwitz e vi giunse nel settembre 1944, proveniente dal campo di transito di Westerbork.
Quando i tedeschi, ormai sconfitti, si ritirarono in fretta e furia, lui si trovava nell’ospedale del campo e non si unì ai gruppi di detenuti evacuati con marce forzate verso destinazioni improbabili. Venne liberato dai russi il 27 gennaio 1945 e, per rimpatriare, compì insieme a molti altri ex internati, un lunghissimo viaggio di ritorno che lo portò a Odessa, poi in nave attraverso il Mar Nero a Istanbul, Atene, Messina, Marsiglia e infine l’Olanda.
Il titolo originale del libro era Wandelende Joden (“Ebrei Erranti”), in riferimento al passato del popolo ebraico. L’editore italiano l’ha cambiato, evidenziando la dimensione notturna, oscura dello sterminio avvenuto con la Shoah, diverso da tutte le altre persecuzioni subite dagli ebrei. Nella contemporaneità il titolo di “Ebrei Erranti” applicato a un testo sulla Shoah non credo sarebbe stato capito, né avrebbe avuto molta presa sul pubblico.
Quando invece Koopman narrò la sua storia si iniziava appena a comprendere l’entità di quanto era accaduto e si stentava ancora a credervi.
Koopman dunque giunge ad Auschwitz e subito si scontra, impreparato come tutti gli altri, con la terribile realtà del campo: ce ne parla in modo molto semplice, raccontando le selezioni, la fame, il freddo, le malattie, i recinti elettrificati, l’irrisoria, allegra marcetta con cui gli internati vengono condotti al lavoro, i kapò e i capibaracca, quasi tutti criminali polacchi, gli stratagemmi per la sopravvivenza, il problema dell’impossibilità d’intendersi, visto che sono radunati ebrei da tutte le parti d’Europa.
Vale su tutto la considerazione di un suo compagno: “A volte è molto più difficile vivere che morire”. Koopman cerca di spiegare anche perché gli ebrei subirono senza reagire: era impossibile, non avevano armi, né collegamenti con l’esterno, erano persone prese di sorpresa in una efficientissima macchina di morte.
Le vicende della guerra vogliono però che si avvicini la sconfitta della Germania, in pochi mesi, fatti di febbrile attesa per i prigionieri, arrivano i russi e liberano Auschwitz. Di questo popolo Koopman parla sempre bene, anche durante il viaggio di ritorno.
Non manca neppure un pizzico di orgoglio nazionale, quando ci racconta dei suoi connazionali, di come presero il controllo di Auschwitz una volta che i tedeschi se n’erano andati e poi delle loro capacità organizzative durante il ritorno, cui almeno una buona metà del diario è dedicata.
Fu un viaggio a tappe e Koopman ama descrivere le città in cui sosta, le devastazioni e l’organizzazione della vita e dei commerci dopo la guerra, il desiderio di un ritorno a una vita normale, l’aiuto che ricevono da più parti, i prigionieri di guerra tedeschi, ormai sconfitti, deportati in carri merci, in un tragico rovesciamento dei ruoli. Si assiste a un vero spostamento di popoli, un fenomeno che non è mai cessato nella storia.
Infine, dopo tante peripezie, il ritorno nell’amata patria, dove Koopman per fortuna ritrova moglie e figli, lei non era ebrea e Jo aveva spedito la famiglia ad Amersfort in provincia di Utrecht fin dal 1942. Il rientro in Olanda fu deludente e Koopman ne parla pochissimo: il suo gruppo si sciolse e solo i più fortunati ritrovarono i loro affetti e una vita normale.
Edizione esaminata e brevi note
Joseph Koopman (Amsterdam 1906-1987) proviene da una famiglia ebraica osservante, il padre aveva un carretto di frutta e verdura. Fin da giovane aderisce al socialismo, sposa una donna non ebrea da cui avrà cinque figli. Negli anni Quaranta la situazione per gli ebrei si fa sempre più difficile, i genitori di Koopman vengono deportati ad Auschwitz dove moriranno, lui manda la famiglia in provincia di Utrecht e si trasferisce sotto falsa identità a Eindhoven, entra nella Resistenza clandestina, in un gruppo che fabbrica falsi documenti d’identità e cerca nascondigli per i ricercati. Viene riconosciuto e denunciato due volte da un suo ex compagno del servizio militare. Arrestato il primo luglio 1944, viene inviato prima al campo di transito di Westerbork e poi ad Auschwitz il 3 settembre. Viene liberato dai russi il 27 gennaio 1945. Dopo il lungo viaggio di ritorno si iscrive al Partito socialista del lavoro e ricopre con successo vari incarichi pubblici notevoli. Nei primi anni Cinquanta studia e si laurea in Economia a Rotterdam, nel 1957 diventa deputato socialista al Parlamento olandese. Poiché l’attività politica non lo soddisfa e gli sembra lontana dalle reali esigenze dei cittadini, la lascia e nel 1963 si dedica a consulenze economiche ad alto livello tecnico in Bangladesh, Brasile, Ghana e Kenya. Dopo la morte della prima moglie, si risposa nel 1976. Muore nel 1987 ed è sepolto in Israele accanto alla prima moglie.
Jo Koopman, La notte di Auschwitz. Diario inedito di un ebreo olandese, Bologna, Edizioni Dehoniane 2018. Introduzione di Piero Stefani. Traduzione dal neerlandese di Alba Maria Tarozzi.
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