Satira feroce, corrosiva, acuta, attraverso una scrittura semplice ma allo stesso tempo tagliente, come un’alabarda spaziale. L’Actarus di Morici è un testo che regala emozioni, vivo, allusivo, pieno di sarcastiche considerazioni sottotraccia, nemmeno troppo mascherate per chi vive quotidianamente le controverse dinamiche del presente. Facile fare parallelismi tra veganiani e talebani (o un qualsiasi possibile “stato canaglia”), tra gli “esportatori di democrazia” e coloro che “distruggono il male”. L’apice della satira, del sarcasmo, però, lo troviamo più che altro nelle descrizioni del privato dei personaggi: i dipendenti del centro di ricerca che chattano tutto il giorno, Alcor che sotto l’effetto dell’alcol ha fatto strage di ragazzini, Venusia malata di sesso, i giornalisti che cercano scoop improbabili, un mondo che vive la guerra come uno spettacolo dal quale nemmeno i bambini sono immuni (davvero riuscito il dialogo tra Actarus e il bimbo super informato). È un mondo surreale, quello che ci descrive Morici, tanto surreale da risultare terribilmente verosimile nel fotografare il senso di vuoto, di noncuranza, di relativismo (inteso nell’accezione più negativa del termine) che nel complesso il nostro mondo vive. La solitudine dell’eroe è, in quest’ottica, assai emblematica: anni di battaglie tutte uguali, mai un graffio (se ben ricordate Goldrake era, a differenza di Mazinga o Jeeg Robot, praticamente inscalfibile), un’emozione che vada oltre il consueto “vai distruggi il male vai”. E alla fine pure i monologhi di Procton, rivolto al tramonto o alla notte stellata. Con la musichetta di sottofondo a chiudere la puntata. Sempre la stessa.
Ad un certo punto della storia Actarus è un concentrato di dubbi. Più si estranea dalla routine del suo lavoro di pilota di robot, più comincia a porsi delle questioni rilevanti: il perché di quella musichetta che lo stordisce improvvisamente, per farlo ritrovare altrove e in altre faccende affaccendato; oppure, quella crescente, quando la battaglia si avvicina all’epilogo. Ma c’è anche quella smielata – due palle davvero – quando l’irriducibile filantropo Procton gli parla dei destini del mondo. Perché tutto si ripete ciclicamente? L’eterno ritorno lo logora, gli impone, pur brillo, di interrogarsi. Morici ci svela piano piano la coscienza dell’eroe ottenebrato, ci lascia la sensazione profonda che non sia l’alcol a creare barriere di comprensione in lui ma il modo in cui è stato concepito, programmato, manipolato. Il suo destino, una volta raggiunta la consapevolezza della propria natura, è segnato: l’ultimo paragrafo, l’ultima corsa di Actarus, cerca di ingannare questo destino; vuole vincerlo, o almeno arginarlo, vuol negargli la sua prevedibilità. Vuol farsi beffe di ciò che sembra già scritto, spiazzando, il destino come il lettore, con un gesto per cui sarà difficile trovare la giusta musica di sottofondo.
Morici, trentenne da qualche anno, ci parla, attraverso la tragicomica vicenda del suo protagonista, nostro eroe senza riserva alcuna, di ciò che siamo diventati oggi. Noi dei primi Settanta, tra precariato, inoccupazione, mobilità, frustrazioni, angosce, ansie di rivalsa e di rivolta, sbarramenti continui, voglia di evasione, ricerca dell’arte come rifugio per allontanare un futuro pieno di nebulose. Nebulose simili a quelle di Vega (ricordate che Vega era avvolto da una nebulosa?), che avvolgono tutti i personaggi della narrazione, fantocci nelle mani di un potere che fa e disfa ogni cosa, che si “inventa” l’antagonista – per far stare tutti (UNITI) sulla corda e meglio controllare -, il nemico, il mostro contro cui essere tutti UNITI. E che importa se, per “pura fatalità”, Alcor fa fuori i bambini di un parco per salvare Venusia (vai distruggi il male vai – non a caso è il motto dei tutti UNITI), se il BENE fabbrica prove fasulle per sconfiggere il male, e se il M.A.L.E. fa altrettanto. Paradossi su paradossi: è tutto molto buffo, a pensarci. E poi c’è Actarus, Actarus è una storia a sé, Actarus siamo noi che ci siamo rotti le palle di distruggere il male senza capire se il male reale è proprio quello che, più o meno convintamente, ci dicono di andare a distruggere. Actarus è la coscienza d’una generazione, che sembra uniformata, oramai indebolita, quasi senza speranze, eppure non priva di sussulti, pronta a lottare, se non per un mondo migliore – contro il male, quello vero, quello esistenziale -, almeno per la propria dignità ad esserci.
“La terra a volte è bellissima, pensa Actarus. Dietro l’arcobaleno, se fai bene attenzione, ce ne è un altro, è un fantastico arcobaleno doppio e lui si è avvicinato e sta per baciarla quando tutto diventa sempre più buio e non sa se l’ha toccata, se ha sognato di toccarla, se vale come bacio, se potrà ricordarselo, se la prossima volta dovrà cominciare tutto daccapo oppure no. Missile stratosferico, finisce la puntata”. (p.162)
Federico Magi, aprile 2007.
Edizione esaminata e brevi note
Claudio Morici (Roma, 1972), romanziere e net artist italiano. Laureato in Psicologia Clinica con una tesi intitolata “Fenomenologia esperenziale del sognare lucido” (pubblicata in “Sogni Lucidi”, a cura di Fabrizio Speziale, Edizioni Il Punto d’Incontro, Vicenza, 1999), ha lavorato per due anni in diverse comunità terapeutiche, prima di cambiare lavoro. È stato direttore dei contenuti del sito d’arte indipendente www.gordo.it. Ha esordito con il romanzo “Matti slegati” nel 2003.
Claudio Morici, “Actarus”, Meridiano Zero, 2007.
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