Ecco il romanzo di un’esordiente. L’autrice, Shubnum Khan, è nata in Sudafrica nel 1985 ed ha origini indiane. Il titolo originale del libro, pubblicato da Penguin Books nel 2010, è un molto più appropriato “Onion Tears”. D’altro canto le cipolle sono un elemento fondamentale della storia, proprio come le lacrime.
Khadeejah Bibi Ballim è una donna dalla personalità forte e dedita prevalentemente all’arte culinaria. Appartiene alla seconda generazione di immigrati indiani giunti in Sud Africa: i suoi genitori erano giunti dall’India e si erano stabiliti a Bronkhorstspruit, cittadina non molto distante da Pretoria. La sua identità originaria, indiana ed islamica, trasuda da ogni gesto, da ogni parola, da ogni aspettativa. Khadeejah è ormai anziana, vedova e fonda le sue certezze su pochi assoluti principi legati, per lo più, all’ordine e all’igiene: “Odiava che la saliera non fosse al suo posto sopra i fornelli. Odiava che gli ospiti lasciassero impronte sui vetri della sua credenza. Odiava che i chicchi di riso cadessero sul tappeto. Ma soprattutto, Khadeejah detestava vedere unghie lunghe sulle mani di una donna. […] Giudicava tutte le donne in base alla lunghezza delle loro unghie; se erano abbastanza lunghe da scalfire una mela, allora la donna non era degna di rispetto“.
Khadeejah ha una figlia, Summaya. Una donna bellissima, dal carattere complesso e con una sofferenza che si trascina nel cuore da diversi anni, almeno undici anni. L’età esatta di sua figlia Aneesa. Il libro è composto dalle voci delle tre protagoniste. Ogni capitolo appartiene, di volta in volta, ad una di loro: espediente tecnico/narrativo non originalissimo che ho già incontrato in altri romanzi.
La storia si snoda e si sviluppa attorno alle vite, passate e presenti, di Khadeejah, Summaya ed Aneesa. Continui e costanti flash back riprendono, di volta in volta, le fila di vicende personali collocate lungo la linea del tempo. Conosciamo così la storia di una donna, di sua figlia e della figlia di sua figlia. Gli uomini, a quanto pare, sono presenze minime se non addirittura ridotti ad assenze. Il marito di Khadeejah è morto, così come dovrebbe essere morto quello di Summaya. Almeno questo è ciò che la donna ha scelto di raccontare alla bambina. Aneesa non è una sciocca e capisce presto che sua madre le ha mentito. Evidentemente c’è un piccolo mistero che ruota attorno ad un uomo di cui tutti, anche Nani (nonna Khadeejah), preferiscono non parlare.
Gli aromi e le spezie dei piatti preparati da Khadeejah fanno da accompagnamento e da sottofondo a tutta la storia. Non c’è pagina in cui non si faccia riferimento al cibo e alla sua dettagliata preparazione. Inoltre il libro della Khan, nella traduzione italiana, ha mantenuto immutati tantissimi termini culinari originali indiani o urdu o afrikaans, oltre ad altre parole legate al linguaggio familiare o a espressioni tipiche.
Indubbiamente la Khan è dotata di un grande talento descrittivo. Si disperde ininterrottamente in lunghi viaggi nel tempo che coinvolgono i suoi personaggi. Il grosso del romanzo, infatti, è costituito proprio da questi ritorni a vicende e situazioni passate mentre l’azione presente occupa una porzione minima, appena indispensabile. E proprio per questa tendenza, ho avuto la sensazione che lo stile della giovane scrittrice possa essere avvicinato a quello vagamente speculativo di alcuni autori americani che, come più volte ho scritto in passato, peccano a mio avviso di scarsa economia narrativa, di modesto dono di sintesi. Una visione del tutto soggettiva che, so benissimo, non è condivisa né condivisibile da tutti i lettori.
Ciò che ho amato molto de “Le radici altrove” è la scelta di sfiorare, senza mai enfatizzarli, problemi legati alle differenze razziali, sociali e religiose. La Khan, evidentemente, conosce perfettamente le radici della cultura da cui proviene, ne afferra le contraddizioni e i limiti e sa costruire, attraverso le personalità tanto diverse delle tre protagoniste, un affascinante incastro di mentalità differenti e una stimolante mescolanza di discordanze generazionali che ho trovato simili a quelle che si originano tra ogni madre ed ogni figlia. E’ molto interessante, e anche divertente, assistere al confronto tra l’approccio conservatore e severissimo di Khadeejah con quello più rilassato e moderno di Summaya.
Per essere un’opera prima, va riconosciuto alla Khan un discreto merito. Nonostante questo, però, ad un lettore più attento ed esigente, non può sfuggire una certa inesperienza, una forma di immaturità narrativa. Il crescendo e l’epilogo della vicenda sembrano poco efficaci forse perché infarciti di accadimenti prevedibili. Al termine di descrizioni tanto particolareggiate ci si poteva aspettare, alla fine, qualcosa di più articolato.
Edizione esaminata e brevi note
Shubnum Khan è nata a Durban, in Sud Africa, nel 1985. Ha origini indiane musulmane. Lavora coma giornalista freelance e come vignettista. Insegna scrittura creativa presso l’UZKN di Durban.
Shubnum Khan, “Le radici altrove”, Nova Delphi, Roma, 2011. Traduzione Cecilia Martini. Titolo originale: “Onion Tears”, Penguin Books South Africa, 2010.
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