“C’è un momento significativo – una sorta di rito di passaggio – nella vita di ogni scrittore, ed è quando lui o lei si rende conto che i personaggi sono fatti di parole“. Una premessa senza dubbio eccitante per un excursus altrettanto allettante. La Byatt, che di romanzi ne ha scritti diversi e anche piuttosto interessanti, parla di come nasca quello che lei definisce arazzo: “I singoli personaggi sono parte di un tessuto di parole, simile ad un arazzo, e le parole che creano le diverse persone sono connesse alla trama di tutte le altre parole“.
Una meccanica che, negli ultimi due secoli di romanzo occidentale, è venuta via via trasformandosi rispetto al baluardo millenario della nostra letteratura: la Bibbia. La Byatt, in sostanza, analizza nel dettaglio la psiche e i comportamenti di personaggi inventati in base a quanto si discostino o si avvicinino alla letteratura biblica per scoprire “ciò che un essere umano è e dovrebbe essere“.
Ovviamente si inoltra in una selva di opere e di autori mastodontici: Balzac, Dostoevskij e Bulgakov, Gogol, Flaubert, Lawrence e Mann, Eliot, Freud, Joyce, Bellow e Philip Roth. Da un tempo all’altro, da un artista all’altro la letteratura è mutata immancabilmente. Nell’Ottocento era fatta prevalentemente di immagini tratte dalla vita reale, le sue radici erano annidate nella cultura cristiana seppure questa iniziasse ad essere messa in discussione dalla scienza moderna.
Il Novecento, fatto di velocità e buone dosi di paganesimo, ha trasformato irrimediabilmente le invenzioni che caratterizzano l’arazzo. Esse si fanno più umane perdendo l’aura di vecchia sacralità. Gli scrittori si discostano in maniera evidente dalle linee del libro sacro ponendo al centro delle vicende psicologia, sentimenti e carnalità. Il “fabbricare persone” diventa poi, nel romanzo contemporaneo, un circuito delimitato da spazi vitali sempre più angusti. L’opera d’arte non sa più essere un modo per immaginare l’infinito visto che “il mondo dei romanzi di Roth e di Thirlwell non è circondato da finestre trasparenti dalle quali si può vedere il cielo. E’ un mondo fatto di specchi e di schermi televisivi, nei quali vedi il tuo stesso corpo, o i corpi equivalenti dei reality show e di celebrità fantasma“.
E’ come se la complessità iniziale dei personaggi letterari si fosse gradualmente svuotata, de-complicata per ridursi a termini minimi e vagamente insufficienti. Un’analisi attenta ma, per stessa ammissione della Byatt, riduttiva, nata da un ragionamento affascinante che, a ben vedere, potrebbe non avere mai fine. “Gradazioni di vitalità” nasce come testo approntato per la conferenza “Huizinga Lecture” a cui la Byatt ha preso parte nel 2004 nella città di Leiden in Olanda.
Edizione esaminata e brevi note
Antonia Susan Byatt è lo pseudonimo di Antonia Drabble. E’ nata a Sheffield, in Gran Bretagna, nel 1936. Per parecchi anni ha lavorato come insegnante di letteratura inglese presso l’University College di Londra. Il suo esordio, come scrittrice, risale al 1964 con “The shadow of the sun”. Pochi anni dopo arriva “The game”. Nel 1978 la scrittrice dà vita alla sua quadrilogia che parte con “Le vergini nel giardino” e prosegue, negli anni successivi, con “Natura morta”, “La torre di Babele” e “Una donna che fischia”. Il successo fondamentale per la Byatt, però, è rappresentato da “Possessione”, romanzo che le ha permesso di vincere nel 1990 il famoso Brooker Prize.
Antonia S. Byatt, “Gradazioni di vitalità”, Nottetempo, Roma, 2010. Traduzione di Anna Nadotti.
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