A Casola Valsenio, il paese di Cavina, ogni anno, durante il terzo fine settimana di ottobre, viene organizzata la Festa dei Frutti Dimenticati. Lì è possibile trovare dei prodotti, al naturale o lavorati, che il mercato tradizionale ha scelto di bypassare per comodità o convenienza. Sono frutti antichi, preziosi, rari, faticosi da coltivare e poco remunerativi. Per questo è facile perderne le tracce: azzeruole, giuggiole, pere volpine, cotogne, mele della rosa, sorbe, corbezzoli, nespole.
Con un parallelismo semplice ed efficace Cavina si associa ai frutti dimenticati. Lui, nato da un padre che ha scelto di dimenticarlo appena saputo che sua madre era incinta, è stato cresciuto dai nonni e da padri “putativi” come nostro Signore ma soprattutto da sua madre, dalle suore e, spesso, dai personaggi trovati nei libri: “Avevo impiegato trent’anni a costruirmi quel babbo tutto mio, ed era implacabile, era D’Artagnan, Sandokan, Tom Sawyer, Jean Valjean, il conte di Montecristo. Era pieno di ricordi di tutte le persone che avevo vissuto fino a quel momento, era sempre con me, indomabile come Cirano“.
Un ideale di padre messo a punto con pezzi di fantasia e una buona dose di tempo, un padre del tutto diverso da quell’uomo magrissimo e quasi insignificante che, un giorno e con uno stratagemma poco più che banale, lo aveva convinto a raggiungerlo a Cesena. “Così eccomi qua in perfetto orario al mio appuntamento con uno sconosciuto. E’ il 6 aprile 2007, ho quasi trentatré anni e un figlio in arrivo che non so se è maschio o femmina, quando lo vedo. Aspetta seduto su una panchina al limite dell’ombra gettata dal portico. Si alza con grande fatica; uno sconosciuto come tanti altri di cui è pieno il mondo. E’ mio padre. E’ la prima volta che lo vedo in tutta la mia vita“.
E quel padre, nella storia di Cavina, continua ad incarnare assenza, silenzio, inadeguatezza. Poche parole malate che non possono e non sanno dare riparo. Cristiano non sa nulla di lui e non ha molto da chiedere. Si porta dentro l’odio spontaneo di un figlio rinnegato. L’unico modo che possiede per conoscerlo è raccontarsi. Le fratture della sua infanzia sono tutte in moto, sono i volti, le parole e le avventure bambine costruite in un piccolo paese di provincia che quell’uomo avrebbe dovuto conoscere e di cui, invece, non sospettava nemmeno.
Il passato propone le immagini dell’asilo delle suore orsoline, capeggiate da suor Luca Maria e del suo dispensare ad ogni bambino i suoi fiori di Bach, o i rimproveri di una nonna dai poteri quasi ultraterreni che ben conosce il potere insidioso dei Cavina, gente dagli occhi di unni invasori, lanzichenecchi della peggior specie, o del ritorno da scuola sulla Vespa 50 rossa di nonno Gianì inutilmente attenti a non cadere. Il presente è fatto invece di un lavoro in pizzeria, di viaggi per presentare libri, dell’amore che non c’è più per Anna e l’arrivo di un bimbo che lei darà alla luce prima del tempo e con il rischio feroce che nasca male.
I capitoli de “I frutti dimenticati” saltano nel tempo e scorrono facilmente tra i vari piani del racconto. Cavina, per uno stravagante gioco della vita, si ritrova ad essere, per la prima volta, figlio di un padre e padre di un figlio. Ruoli che non conosce e che, ovviamente, lo spaventano.
Siede accanto al padre morente, in un letto d’ospedale, e racconta la sua infanzia e porzioni di esistenza che quell’uomo avrebbe dovuto vivere accanto a lui. Non c’è risarcimento che tenga ma c’è anche il bisogno atavico di un figlio di sentire un legame con il proprio padre. “Il vinavil che in tutti questi anni ha tenuto la vita appiccicata a mio padre cede a vista d’occhio. Assisto a un conto alla rovescia particolare, scandito dallo sgocciolio della flebo di soluzione fisiologica e dal segnale acustico del monitor collegato al suo cuore“.
La forza di Cavina è tutta nel suo mondo bambino. L’infanzia colorita e immaginifica di un bimbo che si veste da palombaro e che vede nel comò della nonna un forziere pieno zeppo di tesori. Il fascino dei suoi racconti è nelle avventure e nella loro semplice, incantevole essenza. La scrittura rimane immediata e lineare. Si affida a frasi brevi con continui a capo e procede in un circuito narrativo personalissimo che sa mescolare, pagina dopo pagina, i ricordi rinverditi dal tempo e le paure un po’ vigliacche di un uomo che conosce perfettamente le sue colpe e i suoi limiti e che tenta, umanissimamente, di camuffarli o di dare loro una natura solo un po’ più seducente.
Edizione esaminata e brevi note
Cristiano Cavina è nato a Casola Valsenio, provincia di Ravenna, nel 1974. E’ cresciuto insieme a sua madre e ai suoi nonni materni. Non ha mai amato studiare, ma ha sempre avuto una grande passione per la lettura. Il suo primo romanzo è stato pubblicato nel 2003 e si intitola “Alla grande”. Segue, nel 2005, “Nel paese di Tolintesàc” grazie al quale Cavina viene conosciuto in tutta Italia. Nel 2006 pubblica “Un’ultima stagione da esordienti”, nel 2008 “I frutti dimenticati” e nel 2010 “Scavare una buca”. Tutti i libri di Cavina sono editi da Marcos Y Marcos.
Cristiano Cavina, “I frutti dimenticati”, Marcos Y Marcos, Milano, 2008.
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