“Ogni cittadino può dunque parlare, scrivere, stampare liberamente, salvo rispondere degli abusi nei casi determinati dalla legge”. Un’enunciato tratto dalla “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino”, Parigi, 26 agosto 1789. La libertà di stampa viene finalmente proclamata ma, prima di giungere alla promulgazione di un principio che a noi, oggi, appare per lo più scontato, sono stati necessari secoli di cammino e una miriade di accadimenti, spesso violenti, repressivi e ferocemente soffocanti.
L’invenzione della stampa a caratteri mobili rappresenta una delle rivoluzioni più interessanti e per certi versi inquietanti della storia dell’uomo. Con la sua diffusione, come spiega lucidamente Infelise, si sono ampliati anche i sistemi di controllo su quanto veniva pubblicato: “… fino alla Rivoluzione francese, la convinzione che la pubblicazione di un libro non dovesse essere libera fu ovvia e generalizzata. Si poteva semmai discutere sui modi con cui il censore doveva operare…”. E i modi furono diversi. In primo luogo occorreva operare nei luoghi in cui l’attività degli stampatori e dei librai era più vivace: nelle città tedesche, ad esempio, o a Venezia, in Italia, dove la produzione libraria fu, soprattutto nei primi secoli della storia della stampa, particolarmente importante. Ovviamente le maglie della censura più rigida furono quelle tessute dalla Chiesa di Roma che, ricorda Infelise, istituì l’Inquisizione con Papa Paolo III fin dal 1542 e proprio attraverso i suoi inquisitori operò affinché le pubblicazioni fossero sottoposte a controlli severi e continui. Ma anche i príncipi, in molti casi e in molte aree d’Europa, portarono avanti la loro azione di vigilanza soprattutto perché sapevano di poter trarre da essa il proprio tornaconto: “ingerirsi nel controllo delle idee serviva a contribuire al rafforzamento in senso assolutistico dei propri domini”.
Censura della Chiesa e censura dello Stato. A volte operavano parallelamente, a volte in maniera diversificata rendendo la vita dei lettori e dei librai piuttosto difficile ma, nel contempo, generando un mercato clandestino di opere che, di frequente, trovava il suo sotterraneo sviluppo, d’altro canto è più che naturale che nel momento in cui si va ad imporre un divieto si tende a rendere l’oggetto del divieto stesso più ricercato ed ambito.
Già nella seconda parte del ‘500, quindi pochi decenni più tardi dall’invenzione di Gutenberg, nei cataloghi degli inquisitori si poteva trovare di tutto: “libri in volgare, devozione popolare, produzione accademica e scientifica”. Il concetto che gli intellettuali vadano sorvegliati e che il loro lavoro debba essere rivolto verso la giusta direzione che, ovviamente, era giusta per gli esponenti e le leggi della religione cristiana. La censura alla fonte dei libri procedeva di pari passo con il divieto di leggere. L’arma attraverso cui si poteva più agilmente procedere in questo sistema in evoluzione erano gli indici dei libri proibiti, repertori sempre più dettagliati di opere da tenere al bando perché contrarie ai noti principi del tempo. In Italia il primo indice venne pubblicato a Venezia nel 1549 sulla base di un accordo tra l’Inquisizione, il nunzio apostolico e i Savi all’eresia. Nel 1559 venne reso pubblico l’indice paolino, il più restrittivo e severo di sempre, che attribuiva ogni potere al solo Santo Uffizio romano, nessuno spazio veniva infatti riconosciuto alla censura laica né a quella operata dai vescovi, fino ad allora in prima linea nella guerra contro i libri giudicati eretici. Gli autori inclusi in questo indice furono tanti e celebri: da Machiavelli a Erasmo da Rotterdam, da Luigi Pulci a Giovanni Della Casa, da Boccaccio a Rabelais. Un laccio così stringente provocò subbuglio tra librai e scrittori.
L’indice tridentino fu redatto nel 1564 e venne così denominato perché i vescovi che si occuparono della sua redazione erano in quel momento riuniti a Trento per le fasi conclusive del Concilio. Con la morte di Paolo IV il “furore devastatore” del suo indice venne reso meno restrittivo dal successore Pio IV. In altri Stati europei l’acquisizione degli elenchi di testi proibiti messi a punto dalla Chiesa di Roma ebbe destini diversi.
Le censure e le repressioni furono davvero soffocanti durante tutto il ‘500 e, chiaramente, non risparmiarono le stesse opere sacre o dottrinali che, più di tutte, venivano sottoposte al controllo spietato degli inquisitori. La stessa lettura della Bibbia in volgare (quella che chiunque poteva comprendere facilmente) era proibita ed è questo uno degli elementi che ha portato l’Italia, ma anche la Spagna, all’allontanamento dalle Sacre Scritture che, invece, in molti altri Paesi non avvenne. Perdere il contatto con il Libro Sacro da parte delle masse più umili provocò danni culturali e religiosi pesantissimi che, probabilmente, ancora oggi ci trasciniamo dietro. Tanto rigore, indubbiamente, generò un rallentamento del processo generale di alfabetizzazione visto che al popolo era riservato il solo insegnamento derivante dalle prediche e dal catechismo, mentre il latino era concesso alle classi più abbienti.
Furono tanti i testi che subirono un lavoro di revisione, di epurazione, di stravolgimento: parole, nomi, espressioni sconvenienti vennero sostituiti di sana pianta fino a rigenerare opere ritenute leggibili, conformi all’indice ma del tutto difformi da quelle volute dall’autore.
La mannaia del Santo Uffizio non poteva non infliggere i suoi pesanti colpi ai libri di natura scientifica, soprattutto nel XVII secolo. Basti pensare a Galileo, Keplero, Hobbes, Cartesio o Copernico.
Dei sistemi per riuscire ad evadere dagli artigli della censura, con il passare del tempo, vennero elaborati. Molti stampatori e molti librai, infatti, cercavano di contraffare il frontespizio, magari falsificando la data o la città di stampa. Piccoli sotterfugi in grado di permette la pubblicazione di testi “pericolosi”. Si arrivò, per conseguenza logica, a reazioni e dichiarazioni di fastidio piuttosto forti nei riguardi della censura.
Nel ‘600 l’antagonismo tra Chiesa e Stato giunse a un punto di svolta poiché il peso della sorveglianza laica si fece prevalente rispetto a quella religiosa, invertendo il consueto squilibrio del secolo precedente. Infelise procede così fino al ‘700, secolo dei Lumi, della Rivoluzione Francese ma anche di una delle più importanti ed imponenti opere libere di sempre: l’édie. L’elaborazione e la diffusione di un principio essenziale come quello della libertà di stampa si venne affermando gradualmente fino all’enunciazione definitiva inclusa nella “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino”. Ovviamente non è bastato questa piccola grande ammissione per dare effettiva legittimità ad un concetto tanto rilevante. Basti ricordare, per fare un esempio, che in Italia l’indice è stato ufficialmente abolito da Papa Paolo VI solo nel 1966, ossia 177 anni dopo la proclamazione della “Dichiarazione”.
Il testo di Mario Infelise è un saggio decisamente interessante per chi volesse approfondire e conoscere molti aspetti della storia del libro, dell’editoria e della censura che, per così tanto tempo, ha condizionato l’esistenza stessa delle opere scritte, la vita degli scrittori, degli editorie e dei librai, conducendo molti di loro alla scomunica, alla tortura e, nei casi più eclatanti, alla morte.
Edizione esaminata e brevi note
Mario Infelise è docente presso il dipartimento di Studi storici dell’Università Ca’ Foscarih di Venezia. E’ autore di vari saggi, tra cui “I libri proibiti da Gutenberg all’Encyclopédieh (1999)”, “L’editoria veneziana nel Settecento” (2000), ”Prima dei giornali. Alle origini della pubblica informazione” (2005).
Mario Infelise, ”I libri proibiti da Gutenberg all’Encyclopédie”, Editori Laterza, Roma-Bari, 2009.
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