Il titolo di questo libro contiene i due ingredienti essenziali di tutta la storia: i bambini e il tempo, anche se il titolo originale prevedeva un solo bambino “The child in time”. Nel corso dell’intero romanzo si incontrano bambini così come ci si imbatte in ogni forma di tempo possibile e vivibile.
Stephen Lewis è uno scrittore divenuto famoso quasi per caso. La sua notorietà è dovuta ad un libro, suo malgrado, per l’infanzia intitolato Lemonade. Un successo inaspettato che gli garantisce un’esistenza agiata e la possibilità di dedicarsi comodamente a ciò che ama. La vita dell’uomo, però, viene funestata da un episodio che McEwan descrive nel primo capitolo: Stephen è in un supermercato con sua figlia Kate, una bimba di soli tre anni, ma in una minuscola frazione di tempo si distrae e smarrisce la bambina. Kate scompare inghiottita nel nulla. Di lei nessuna traccia. Una perdita che Stephen e sua moglie Julie non sanno superare. Infatti la donna decide di lasciarlo allontanandosi dalla loro casa: “Stephen sapeva che presto sarebbe rimasto solo un’altra volta. Ma persino adesso non sapeva rinunciare ai suoi vagabondaggi, non poteva impedirsi di pensare che la situazione si era deteriorata al punto che non aveva provato alcuna particolare emozione quando, di ritorno dalle sue ricerche un pomeriggio di febbraio, aveva trovato vuota la poltrona di Julie. Un biglietto lasciato a terra riferiva il nome e il numero di telefono di un ritiro in un ex monastero nei Chilterns”.
Il vuoto lasciato da Kate genera nel protagonista una serie di mutazioni dolorose e accecanti. Ogni certezza acquisita, ogni abitudine viene ad essere violentemente smantellata mostrando il lato più scheletrico e provvisorio di tutta un’esistenza. Stephen prende parte alle riunioni di una commissione governativa che ha il compito di stilare un sorta di manuale per l’educazione dell’infanzia. E’ questo uno dei pochissimi impegni che porta avanti visto che, dopo la sparizione della bambina, vive abbandonato a se stesso, bevendo, fumando e guardando pessimi programmi in TV.
Accanto alla figura di Stephen troviamo anche quelle di due suoi amici: Charles Darke e sua moglie Thelma. Darke è un uomo che ha conosciuto successi professionali notevoli fino a ricevere importanti incarichi pubblici e a sfiorare il titolo di Primo Ministro. Thelma è una donna più grande di lui, studiosa e docente di fisica. Sarà per l’età, sarà perché Charles regredisce, mese dopo mese, fino a tornare allo stato mentale e comportamentale di un dodicenne, ma il rapporto tra i due sembra quello tra una madre ed un figlio.
In ognuno dei personaggi si annida un bambino. Come accade a chiunque. Quella regione infantile che spesso facciamo tacere o con la quale, ad un certo punto, scegliamo di non avere più a che fare, ma che esiste e ci tiene in equilibrio.
McEwan si muove sfiorando sempre le stesse tematiche che si ripetono in vortici perenni: gli adulti che percepiscono il tempo della loro infanzia, il tempo percepito con gli occhi di chi non è più bambino, l’età infantile prolungata e confusa con l’età adulta, il tempo dilatato fino all’infinito per descrivere un incidente d’auto e il tempo-baratro in cui è stata risucchiata la piccola Kate. Le mescolanze possibili sono davvero molte e lo scrittore inglese sembra volerle esplorare tutte. Ci riesce anche se, spesso, diventa prolisso e quasi monotono. Ci porta dentro ogni atomo dei pensieri di Stephen fino quasi a rendere quest’uomo in-credibile. Si dilunga in infinite descrizioni di dettagli ambientali e spaziali: strade, boschi, alberi, stanze, tende, tavoli, finestre, gatti, mendicanti. Una miriade di cornici che, a lungo andare, diventano quasi insopportabili. Uno stile che mi ha riportato alla mente alcune romantiche autrici inglesi dell’ottocento e quei romanzi gonfi di parole e di sensazioni che poco hanno a che fare con la letteratura contemporanea. Happy end compreso.
Edizione esaminata e brevi note
Ian McEwan, “Bambini nel tempo”, Einaudi, Torino, 1988. Traduzione di Susanna Basso.
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