“Il Selvaggio West nello spazio profondo. La caccia vi terrà svegli”. L’affermazione (dal Los Angeles Time) presente nella quarta di copertina di “In fondo il buio”, è impegnativa, non è di quelle che passano inosservate. Curiosando qua e là possiamo trovare anche altri commenti – positivi – dove più che di “west” si parla di fantasy, di richiami a Tolkien, di “fantascienza pura”, di immaginario che ricorda la tradizione epica e così via. In realtà, dopo aver terminato il romanzo, molti lettori avranno capito che l’opera di George R.R. Martin non è incasellabile in un filone definito, tipo steampunk fantasy o post apocalittico: gli ingredienti fantasy e quelli fantascientifici si fondono semmai per un racconto che, pur segnato da una particolare malinconia (la vicenda è ambientata in un mondo morente), nel suo scandire azione e drammi fino all’ultima pagina, difficilmente farà conoscere la parola noia. Da questo punto di vista la casa editrice Gargoyle ha avuto fiuto nel recuperare, con nuova traduzione e nuovo titolo italiano, “Dying of the Light” (1977), il primo romanzo di genere scritto da Martin, già edito come “La luce morente” nel 1979 per i tipi di Armenia.
La vicenda si svolge sul Worlorn, in un futuro indefinito, dopo che gli esseri umani, sopravvissuti alle guerre con gli alieni, hanno colonizzato una parte della galassia: nuovi mondi e quindi nuove culture per uomini sempre più distanti e alieni tra loro. Worlorn è un pianeta che non orbita stabilmente in un sistema solare, vaga senza una precisa meta, che però in tempi meno remoti è giunto vicino alla Ruota di Fuoco, super-gigante rosso, attorno al quale ruotano altri sei soli più piccoli. Questa circostanza permise agli uomini di quattordici diversi pianeti di colonizzarlo e di costruirci le loro città. Adesso però il pianeta Worlon si sta nuovamente allontanando dalla luce, si dirige pericolosamente verso il “grande mare nero”, lo spazio intergalattico senza stelle, e pochi sono gli uomini rimasti a presidiare il mondo morente. Su Worlorn viene chiamato Dirk t’Larien dalla sua ex amante Gwen, non si capisce bene per quale motivo; non fosse altro che la donna, come “betheyn”, è ormai legata, in maniera subalterna e servile, a due strani personaggi: Jaantony Vikary e al suo “teyn” Lorimar. L’uomo è proveniente da Alto Kavalan, un mondo che, dopo le guerre aliene, è tornato in condizioni primitive e che, ancora dopo secoli, si caratterizza per gli abitanti divisi in clan e pervasi di un’inquietante cultura guerriera e un sanguinario senso dell’onore. Betheyn si scoprirà è un termine che indica il legame di una donna al capo clan, mentre teyn è un legame di amicizia tra due uomini. Legami non subito ben definiti, soprattutto quello tra teyn, che fino all’ultimo conserveranno una particolare ambiguità, tali da scatenare il precipitare degli eventi, scontri all’ultimo sangue tra uomini legati ad una tradizione violenta e uomini che, a costo della vita, da questa tentano di affrancarsi.
Nelle ultime righe del romanzo troviamo t’Larien intento ad affrontare un mortale pericolo, mentre fino a quel momento i suoi sforzi apparivano volti a salvare se stesso e la sua ex amante piuttosto che a mostrarsi eroico guerriero: il cerchio della vicenda non si chiude e rimane invece aperta per un possibile seguito. Un immaginario fantascientifico quello di Martin che si caratterizza da una scrittura piuttosto elegante, con le sue suggestioni epiche e le descrizioni di un pianeta destinato all’oscurità. La tecnologia di questo mondo morente, dove le civiltà aliene sono soltanto ricordate come artefici di antichi massacri, risulta differenziata da città a città, a seconda delle diverse culture umane colonizzatrici. Questa idea consente all’autore di fondere in maniera virtuosa sia elementi più propriamente fantascientifici, sia elementi definibili come fantasy, di modo da far convivere la violenza del medioevo, o di un “west” senza legge, con le meraviglie del futuro.
Si è scritto anche della presenza di un mix di “epica, sesso e nostalgia”. L’epica e la nostalgia sono elementi che balzano subito agli occhi: non potrebbe essere altrimenti leggendo di un pianeta destinato ad uno spazio intergalattico senza luce, con foreste che pian piano marciscono a causa del sistema solare sempre più debole e lontano, con città quasi disabitate e con guerrieri barbari che vivono per uccidere “falsi uomini” (forse antico ricordo di alieni mutanti), come fossero appartenenti ad un Ku Klux Klan del futuro. Altro discorso il sesso: nessuna ginnastica erotica e nemmeno esercizi di stile su organi inturgiditi, semmai un che di ambiguo che caratterizza i rapporti tra i protagonisti del romanzo ed in particolare tra la betheyn e i teyn. Possiamo affermare che nel romanzo di Martin si coglie una voluta ambiguità, intesa come descrizioni che lasciano sul vago gli usi e costumi di Alto Kavalan: ad esempio i legami tra i teyn, la genesi dei clan dopo le invasioni aliene, la condizione delle poche donne sopravvissute alla mercé della comunità; e non ultimo il grottesco saluto tra guerrieri prima di una sfida all’ultimo sangue. Tradizioni barbare, decadenti e una sessualità sterile di uomini che si ritrovano ultimi colonizzatori di un mondo destinato al buio.
Questo è Worlorn: “Un vagabondo, un viaggiatore senza meta, una scoria della creazione; questo era il pianeta. Per un’infinità di secoli aveva continuato nella sua corsa, solitario e senza scopo, precipitando tra i freddi e remoti spazi che si spalancano fra le stelle. Nei suoi cieli sterili, generazioni di astri si erano presentate l’una dopo l’altra in sciami maestosi. E tuttavia non apparteneva a nessuna. Costituiva un mondo completamente racchiuso in se stesso. In certo qual modo non faceva parte nemmeno della galassia, anche se ne intersecava il piano come un chiodo attraversa la tonda superficie di un tavolo. Non faceva parte di niente”.
Edizione esaminata e brevi note
George R.R. Martin (1948) è uno scrittore statunitense specializzato in fantasy e fantascienza. Oltre a essere uno scrittore, Martin è produttore, sceneggiatore cinematografico e di fumetti. Le sue opere sono state tradotte in tedesco, francese, italiano, spagnolo, svedese, olandese, giapponese, portoghese, croato, russo, polacco, ungherese e finlandese. Della sua vastissima produzione ricordiamo “Le cronache del ghiaccio e del fuoco”, “Il battello del delirio” (Gargoyle 2010), “Armageddon Rag”.
George R. R. Martin, In fondo il buio, (traduzione Tarallo & Tintori), Gargoyle, collana Gargoyle Extra, Roma 2012, pag. 364, euro 16,90
Luca Menichetti. Lankelot, aprile 2012
Follow Us