Durante i diciotto mesi trascorsi sottoterra tenni un diario, oggi conservato nell’Holocaust Memorial Museum di Washington, DC. Avevo poca luce, pochissima carta e solo un mozzicone di matita. Registrai sul diario tutto quello che potei, ma anche se ho parlato spesso della mia vita, non mi era mai venuto in mente di metterla per iscritto.
Così Clara Kramer introduce “La guerra di Clara”, il racconto della sua esperienza della Shoah. Nel 1939 Clara è solo una ragazzina. Ha dodici anni e vive a Zolkiew, una cittadina che, al tempo, apparteneva alla Polonia mentre ora è in territorio ucraino. Per diversi secoli la popolazione di Zolkiew è stata una mescolanza di polacchi, ucraini ed ebrei, ma con l’avvento del nazismo la situazione muta radicalmente.
La città, prima dell’occupazione tedesca, era sottomessa ai russi. Alcuni ebrei, tra cui dei parenti di Clara, infatti, vengono arrestati e deportati in Siberia. Ma la tragedia, per i cinquemila giudaici del luogo, si fa più vasta con l’invasione dell’esercito di Hitler.
Da anni sentivamo i discorsi esaltati di Hitler alla radio di dzadzio (il nonno, ndr). Anche se capivano ogni parola, mama e papa (mamma e papà, ndr) non credevano che una persona così estremista potesse governare per molto tempo. Erano tutti convinti che il popolo tedesco si sarebbe presto ribellato rovesciandolo.
Il 18 settembre 1939 i nazisti arrivano a Zolkiew.
Una famiglia grande quella di Clara, composta dalla sorella Mania, dai genitori ma anche da zii, cugini ed altri parenti. Durante alcuni mesi la vita degli ebrei procede quasi normalmente, ma presto arrivano le prime imposizioni: il coprifuoco, la stella di Davide da portare addosso come segno distintivo, il divieto di accedere in precisi luoghi o di fare determinate cose. Gli spazi vitali si restringono gradualmente. I russi lasciano la città ai nuovi dominatori.
E iniziano le prime delazioni. La mia cara amica Helena Freymann fu uccisa un giorno mentre camminava per strada dopo essere uscita di casa. Un polacco, al quale sorrideva ogni volta che si incrociavano e la cui famiglia conosceva la sua da due anni, la indicò a un soldato che non era nemmeno delle SS. Quello estrasse semplicemente la pistola e le sparò, come se si fosse acceso una sigaretta. Si era dimenticata di mettere la fascia al braccio.
Polacchi ed ucraini, quindi, diventano potenziali nemici degli ebrei. Capaci di tradire chiunque per ottenere qualche privilegio o solo qualche litro di vodka. Chi può fuggire, cerca riparo in Ungheria o in Romania, gli altri tentano di trovare un luogo per nascondersi. Le akcja (letteralmente “azioni”) dei nazisti cominciano presto a riempire carri di cadaveri di ebrei uccisi per i motivi più diversi. La famiglia di Clara non ha molta scelta: deve entrare nel ghetto. Eppure, all’ultimo minuto, si presenta un’altra soluzione. La famiglia polacca dei Beck, a cui era stata assegnata la casa degli ebrei Melman, può nasconderli.
Un’alternativa apparentemente quasi assurda. Valentin Beck, il capofamiglia, è noto per il suo acceso antisemitismo, per essere un ubriacone, un donnaiolo, uno scansafatiche e un violento. Eppure il nascondiglio scavato sotto la sua casa è l’unica alternativa al ghetto e alla morte. Julia Beck, la moglie di Valentin, è una donna forte e generosa; Ala, la loro giovane figlia, una ragazza bella ed intelligente.
Il nascondiglio, scavato nella terra con le mani da Clara e da altri ragazzini, diventa una tana per undici persone. E’ il dicembre 1942. Inizia per Clara e gli altri un periodo difficile, fatto di silenzi, paure, angosce, fame e sofferenze. Le giornate trascorrono uguali. Il dialogo è ridotto a qualche scambio di parole sussurrate. Nel pavimento della camera da letto dei Beck vi è la botola che permette di raggiungere il nascondiglio. La famiglia di Valentin cerca di dare sostegno e aiuto. Permette agli ebrei di lavarsi una volta a settimana, prepara loro il cibo, dà l’acqua che può, consente di svuotare i secchi pieni di escrementi.
Per la vigilia di Natale hanno chiuso tutte le finestre e le porte e ci hanno invitato a cena. E’ stato meraviglioso. Abbiamo intonato canzoni natalizie, per un momento quasi ci siamo dimenticati di tutti i problemi ma, soprattutto, abbiamo mangiato molto. Abbiamo dovuto però correre di sotto e tornare a nasconderci di nuovo perché qualcuno aveva bussato alla porta.
Il rischio di essere scoperti è spesso imminente eppure la fortuna e il carattere del signor Beck aiutano. Col tempo le persone ospitate diventano diciotto. E le problematiche aumentano di conseguenza. Nel nascondiglio arrivano anche due bimbi, Zygush e Zosia, cugini di Clara, ormai orfani. La ragazza cerca di estraniarsi leggendo più che può e scrive tutto quello che pensa e che accade. Passano le settimane e i mesi. Gli ebrei dipendono in tutto e per tutto dai Beck e dagli sbalzi di umore di Valentin.
Arriva il giorno dello Yom Kippur e Clara scrive: Avremmo chiesto perdono a Dio per i nostri peccati, implorandolo di aiutarci a perdonare coloro che avevano peccato nei nostri confronti, ma come avremmo potuto chiedere a Dio di perdonare le SS? Come potevamo? Come avrei potuto pregare con sincerità, senza diventare la più grande bugiarda del mondo? Come avrei fatto a chiederlo a Dio? Come non considerarla una parodia di tutto ciò che per noi era sacro?
La situazione peggiora ulteriormente quando ai Beck vengono assegnati due ferrovieri e alcuni soldati tedeschi che, per un tempo indefinito, dovranno vivere nella casa. La libertà di movimento per i reclusi diventa ancora più esigua. Il silenzio diviene ancora più intenso ed essenziale. Anche solo un colpo di tosse o un sospiro più profondo potrebbe segnalare la loro presenza e condannare a morte loro e i Beck.
Il racconto è dettagliato e attento. Gli occhi e i pensieri di Clara sono devastati dalla paura e dal timore che quell’inferno non debba aver fine. Essere rinchiusi in un buco sotterraneo spezza i nervi, provoca annichilimento, demolisce ogni ragione. Ma lo spirito di sopravvivenza è al di sopra di ogni paura. La volontà di vivere anche solo un giorno in più, genera forze inaspettate ed insospettabili.
E non si tratta di letteratura. La storia raccontata da Clara è una cronaca pura. Non c’è spazio per i voli fantastici, la realtà è più che sufficiente. Il desiderio della Kramer è solo uno: raccontare cosa è successo. Lei è una delle testimoni ancora vive. Non ha conosciuto i campi di sterminio, non ha conosciuto i forni crematori né la deportazione, ma ha vissuto la sua Shoah. Dei cinquemila ebrei di Zolkiew, al momento della liberazione, ne rimangono solo cinquanta. Un’intera comunità è stata annientata eppure qualcuno è rimasto. Indebolito, denutrito, malato, irriconoscibile. Eppure vivo.
Quando penso all’Olocausto, scrive la Kramer, non penso ai sei milioni che sono morti, ma ai cinquanta milioni che non hanno avuto l’opportunità di nascere.
Edizione esaminata e brevi note
Clara Kramer è nata come Clara Schwarz nel 1927, in Polonia. Dopo la sua esperienza della Shoah, raccontata ne “La guerra di Clara”, ha vissuto in Palestina e poi si è trasferita negli Stati Uniti. Vive in New Jersey dove ha fondato e dirige l’Holocaust and Prejudice Reduction Center della Keane State University.
Clara Kramer, Stephen Glanz, “La guerra di Clara”, TEA, Milano, 2009. Traduzione di Maddalena Togliani.
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