Quattordici racconti e tanti piccoli mondi. Quotidiani e irripetibili, come irripetibile è ogni esistenza. Roveredo è stata una sorpresa annunciata: suggerimento di un amico che se ne innamorato e ha voluto condividere con me questa scoperta per caso. Letto e bruciato in qualche ora. Magris ne fa una premessa accattivante, e a ragione. Non è letteratura in senso stretto quella di Roveredo. Evidentemente non scrive per arte, forse per mestiere e per darsi voce. Eccellente “Mandami a dire”, il racconto che dà il titolo al libro. Quello, a mio avviso, più toccante ed assoluto. Una storia d’amore fiorita nel Casamento, un luogo per malati di mente, protetto da mura e portoni, senza alcuna libertà ma pieno di una misura calcolabile e circoscritta. Se solo potessi liberarmi di questa libertà, la scambierei immediatamente con il vecchio nostro Casamento. Una lettera che viene dal cuore di un uomo innamorato che non sa dove sia finita la donna che ama: qualcuno li ha portati fuori dal Casamento e rispediti nel mondo, quello di una libertà troppo grande e pieno del vaneggiamento di automobili senza occhi. Una ricerca tenace e splendida che si gonfia di poesia: Io dalla mia ho una speranza che vince mille a zero sulla pazienza, così so e ho sempre saputo che un giorno… Un giorno arriverà il tramonto e si siederà sopra il sole, ma in quel momento il sole si rifiuterà di scendere giù, giù in fondo al mare, allora succederà che ci sarà luce tutto il giorno, sarà la volta che i curiosi non si sveglieranno dal riposo e tu, tu non sarai astratta come il sogno. Sarà un giorno senza numero, senza mese e senza anno, e io e te avremo conquistato l’eternità. Ci credi? Se sì, mandami a dire.
Racconti intrisi di dolore, spesso. Dolore insopportabile e ricolmo di impotenza, come quello di “100! 120! 140!…”. La perdita di un figlio, infatti, non trova consolazione e mai potrà averla. Forse si sfiora il patetico, ma solo per minuscole porzioni. La lacerazione dei ricordi e l’urlo straziato di un’assenza irrecuperabile. Un racconto più lungo degli altri che si sviluppa tra dialoghi solo immaginati e flussi di coscienza. Il dolore di una perdita non ha misura, dimensione, lui è grande e lungo come tutta la disposizione che trova, disposizione che prima diventa invasione, e poi alienazione, soprattutto quando per non ammettere la scomparsa, sei disposto a vivere anche un’assenza. In quell’assenza, quello che pesa di più non è la mancanza fisica, ma il rendersi conto di essere stati privati della sciocchezza importante delle piccole cose…
Alcuni dei racconti, invece, hanno forza inferiore. Meno incisivi, meno intimi, forse.
Commovente e familiare “Parlare con le mani, ascoltare con gli occhi…”, delicato e divertente “La famiglia Starnazza”, molto toccante e amaro “L’uomo dei coperchi”. Le voci narranti si moltiplicano e prendono facce e motivi diversi: dal bambino punito e rinchiuso nello sgabuzzino al ciclista sfortunato e felice, dal fumatore incallito all’adolescente innamorato di Valentina e da lei tradito. Ci sono anche storie che suonano come una denuncia o un rimprovero. Spuntate dai mali che infettano la nostra civiltà. Come il baratro disperato del lavoro minorile raccontato in “Succo d’aceto” o il suicidio accolto dall’indifferenza di una strada affollata di “Vola l’ucraino”.
Tocca le corde dell’emarginazione e della diversità Roveredo. E lo fa con estremo rispetto e con gli occhi malinconici di chi conosce ed ha vissuto al margine. Senza colpe né rimproveri. La sua scrittura è veloce e serrata. A volte ripercorre un parlato comune, spezzato e incerto. Vero, comunque. La tragedia si infila nelle maglie della vita, e quindi della narrazione, e seppure beffarda ed inevitabile lascia spazio alla speranza o alla constatazione ironica del suo corso sorprendente.
Edizione esaminata e brevi note
Pino Roveredo è nato a Triste nel 1954. Figlio di genitori sordomuti, egli stesso scrive: gprima di imparare i rumori ho conosciuto il silenzioh. Durante la sua giovinezza, lo scrittore ha vissuto la piaga dellfalcolismo a cui hanno fatto seguito problemi di emarginazione e ricoveri in ospedale psichiatrico. Esperienze dolorose e fortissime di cui parla in gCapriole in salitah, il suo libro dfesordio, risalente al 1996. Pino Roveredo ha lavorato per anni come operaio, è operatore di strada, oltre che giornalista e collaboratore di varie organizzazioni umanitarie che prestano aiuto a categorie disagiate. Tra le sue opere: “Una risata piena di finestre” (1997), “La città dei cancelli” (1998), “La Bela Vita” (1998), ”Ballando con Cecilia” (2000), ”Mandami a dire” (Premio Campiello 2005), “Caracreatura” (2007), “Attenti alle rose” (2009).
Pino Roveredo, “Mandami a dire”, Bompiani, Milano, 2006.
Follow Us