“La demenza del pugile”, titolo originale francese “La démence du boxeur”, è un libro uscito nel 1992 col quale François Weyergans si è aggiudicato il Premio Renaudot. Cosa ha a che fare il pugilato con questo romanzo? Nulla. E la demenza? Nulla. In effetti il titolo può trarre in inganno perché ne “La demenza del pugile” non si racconta né una storia di boxe, né una storia di infermità mentale. Nel romanzo di François Weyergans, tradotto in italiano per la prima volta, si racconta, semplicemente, la vita e le opere di un anziano signore che risponde al nome di Melchior Marmont. Di lui sappiamo fin da subito che ha 82 anni e che è nato esattamente al principio del secolo: nel 1900. Deduciamo, dunque, che la vicenda narrata è temporalmente collocata nel 1982. Melchior è un produttore e distributore cinematografico e televisivo che, nell’arco della sua carriera, ha avuto modo di conoscere molti personaggi famosi e di farsi apprezzare nel dorato mondo di Hollywood nel quale è approdato giovanissimo e quasi per caso.
Alla discreta età di 82 anni, ormai vedovo di una moglie bellissima e molto più giovane di lui, Melchior riesce ad acquistare “la casa dove nell’infanzia aveva giocato a nascondino e a capotreno, dove aveva vissuto i momenti più belli dell’adolescenza, scritto poesie alla luce fioca di una candela (conservava ancora un vecchio taccuino con Ode all’uragano e Danza macabra) e vissuto le prime fantasie d’amore con belle donne come protagoniste…“. La dimora, denominata Château Saint-Lèonard, è il luogo in cui Melchior e i suoi fratelli hanno vissuto insieme alla madre e all’uomo che la donna ha sposato dopo la morte del padre, ucciso durante la Grande Guerra.
Rientrare da solo, dopo tantissimi anni, nella casa della sua giovinezza porta Melchior a ricordare e a riscoprire parti di sé che aveva forse solo lasciato a decantare. La memoria è senza dubbio la protagonista del romanzo di Weyergans. La memoria è fatta di oggetti, visioni, desideri, racconti, parole, immagini. La memoria è quella di Melchior, un uomo che rimane, nonostante l’età e nonostante il tempo e la perdita di tante persone amate, un individuo determinato e volubile, una persona che non crede a chi dice di non avere rimpianti e che non smette di voler fare. Tantissimi i dettagli descritti e ricordati, tante le vicende di vita che si intrecciano, un po’ a caso, nella mente di Melchior mentre si muove tra le vecchie stanze della casa che ha abitato tanto tempo prima e che, nei decenni, è stata trasformata e deformata da chi lì ha abitato e vissuto.
Un fraseggiare ampio, una scrittura semplice, un susseguirsi di piccole storie a comporre ed arricchire la storia principale, elementi che, in generale, lasciano questo romanzo galleggiare costantemente a vista. Nessun rischio, nessuna rottura, nessun impeto autentico né dal punto di vista stilistico né dal punto di vista narrativo. Una superficie piatta e sempre uguale che, personalmente, ho trovato prevedibile ed opaca. Forse la mancanza più grave sta nel fatto che l’autore non abbia mai neppure tentato di addentrarsi nell’anima del protagonista, ha semplicemente lasciato che le reminescenze di Melchior ne tratteggiassero la psiche e lo spirito dimenticando, forse, che tale meccanismo, seppure legittimo, non consente di generare alcuna profondità né di concedere un autentico spessore ai personaggi. Ed è un peccato poiché nel libro ci sono frammenti interessanti, molto visivi, molto cinematografici ma la letteratura è un po’ più complessa e pretenziosa del cinema poiché parla e non si limita a descrivere.
Infine, tornando al titolo del romanzo, “La demenza del pugile” non è altro che il titolo del film col quale Melchior vuole raccontare la sua vita e mettere su pellicola il libro di memorie che ha composto con l’aiuto di suo figlio. “Il suo film raccontava la vita, più o meno ricalcata sulla sua, di un uomo che fa il bilancio, con un tono amaro e divertito, dei colpi che ha dato e di quelli che ha ricevuto. La metafora della demenza del pugile sarebbe il modesto contributo offerto da Melchior Marmont al tentativo di definizione di sé in cui l’essere umano è da sempre impegnato. Gli era sembrato pertinente suggerire che i colpi immaginare sono i più dolorosi dei pugni, e le loro ferite spesso inguaribili. Tutta la vita si svolge su una sorta di ring mentale, aveva detto, dove il più delle voltesi è costretti a lottare contro se stessi e la sola regola è che bisogna battersi senza arbitro e senza gong indipendentemente dal numero degli avversari. Quanto alla demenza, Melchior non vi vedeva più una diagnosi medica, ma un’indicazione della sua epoca. L’ultima battuta del film era: «Quando lascerò questo pianeta ci sarà un miliardo di analfabeti»“.
Edizione esaminata e brevi note
François Weyergans è nato a Etterbeek, in Belgio, nel 1941. La sua prima passione è stata il cinema infatti inizia la sua carriera scrivendo per Cahiers du cinema, una prestigiosa rivista cinematografica francese. Nel 1961 dirige il suo primo film-documentario su Maurice Béjart. L’avvicinamento al mondo della letteratura arriva dopo essere andato in analisi, un’esperienza da cui fa derivare il suo primo romanzo, “Le pitre“, uscito nel 1973. Qualche anno più tardi, esattamente nel 1981, pubblica il suo secondo romanzo, “Macaire le copte“, con cui conquista il Prix Rossel in Belgio e il Prix des Deux Magots in Francia. Da questo momento in poi Weyergans si dedica esclusivamente alla scrittura e pubblica una serie di opere spesso apprezzate e premiate. Nel 2009 è divenuto uno dei membri dell’Académie Française.
François Weyergans, “La demenza del pugile“, L’Orma Editore, Roma, 2018. Traduzione dal francese di Maria Baiocchi. Titolo originale “La démence du boxeur” (1992).
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